Stress: se lo conosci ti proteggi

Il concetto di “stress” impera ormai nelle nostre vite quotidiane, rivelandosi forse il più abusato, laddove la frequenza con cui se ne parla resta comunque inferiore alla conoscenza qualitativa del fenomeno attualmente diffusa. Ciò fa sì che questo venga molto spesso chiamato in causa, anche ragionevolmente, ma senza chiarezza circa i reali meccanismi di funzionamento negli stati di benessere/malessere psicofisico. E che circolino credenze che suonano più o meno così: “quando i medici non sanno individuare la causa di ciò di cui soffri, ti dicono che è lo stress”. Quest’ultimo può arrivare dunque a essere percepito come una sorta di “jolly” adoperato in assenza di altre spiegazioni patogenetiche. Oppure come una sorta di elemento di “fede”, qualcosa in cui credere o meno; o, in generale, può restare una grande incognita. Sottolineando l’importanza di una relazione di fiducia e di compliance con il medico curante,  diviene oltremodo importante aumentare la conoscenza della natura e dei meccanismi d’azione del fenomeno.

Letteralmente stress significa “sforzo, pressione”. Il termine deriva dalla radice indoeuropea “str”, associata all’esercizio di pressione (greco strangalizein, “strangolare”; latino strigere, “stringere”) e si ritiene che nei tempi moderni sia stato mutuato dal contesto delle prove di laboratorio a cui sono sottoposti dei materiali allo scopo di determinarne la capacità di resistenza strutturale. In questo senso lo stress è la pressione o il carico esercitato sul materiale.

In biologia lo stress è inteso come tutto quello che può alterare l’omeostasi, ossia la condizione di equilibrio delle funzioni fisiologiche dell’organismo (ad esempio la temperatura corporea, il battito cardiaco, la concentrazione degli zuccheri nel sangue, ecc.), per preservare la quale l’organismo, in presenza di stressors, innesca un repertorio di risposte adattive, fisiologiche e comportamentali, atte appunto a ristabilirla. Il caldo può essere un esempio di stressor fisico: ai fini del controllo omeostatico il corpo innesca dei meccanismi di dispersione del calore, ad esempio attraverso la vasodilatazione.

Il patologo sperimentale Hans Selye è ritenuto il padre della ricerca sullo stress. Nel corso del ‘900 Selye si è dedicato allo studio dell’adattamento dell’organismo a diverse tipologie di agenti stressanti, fisici e psichici, dando avvio alla concettualizzazione dello “stress psicologico” e delineando la teoria ancora attuale sul funzionamento della risposta di stress, definita General Adaptation Syndrome (G.A.S.) ovvero “Sindrome Generale di Adattamento”. Selye scoprì che la risposta fisiologica allo stress può innescarsi sia di fronte a uno stressor fisico (ad esempio un bagno in acqua gelida), sia di fronte a uno stressor psicologico, emotivo. La sindrome di adattamento è una risposta innata adattiva, finalizzata a proteggere l’omeostasi, dunque l’organismo, di fronte a elementi avversi, esterni o interni, fisici o psichici. Essa attiva delle modificazioni neuroendocrine che esercitano effetti su:

  • Funzioni del sistema nervoso centrale (aumento dell’attivazione psicofisiologica, di allerta, vigilanza, cognizione, attenzione…).
  • Funzioni periferiche, con conseguenze su svariati sistemi interni (cardiovascolare, respiratorio, gastrointestinale, immunitario, incremento del metabolismo…).

L’omeostasi basale sana è definita anche eustasi, mentre un adattamento omeostatico insufficiente, eccessivo o prolungato, genera quello che viene definito carico allostatico. Sia l’ipofunzionamento sia l’iperfunzionamento dei sistemi omeostatici possono generare questo carico e danneggiare l’organismo a breve e lungo termine.

Selye illustrò 3 fasi nella Sindrome Generale di Adattamento: quella di “Allarme”, in cui si innescano le reazioni psicofisiologiche descritte; quella di “Resistenza”, in cui lo stressor perdura e l’organismo tenta appunto di resistere, mantenendo attivati i soliti processi; quella di “Esaurimento”, in cui l’organismo esaurisce le capacità di fronteggiamento, sottoponendo la persona al rischio di svariate patologie internistiche o psichiatriche.

Lo stress non può prescindere dal rapporto tra caratteristiche degli stressors (tipologia, intensità, durata nel tempo) e caratteristiche del soggetto che vi risponde, tra la natura delle richieste ambientali e le capacità del soggetto di farvi fronte. Quando questo rapporto è proporzionato, e l’individuo percepisce un controllo, una capacità di fronteggiare tali richieste, si parla di “eustress”, la versione adattiva e benefica dello stress, che non può e non deve essere evitata, in quanto funzionale alla sopravvivenza come alla qualità della vita. Quando invece le richieste superano le capacità adattive della persona, e lo stress acuto si perpetua nel tempo, trasformandosi in stress cronico, si parla di “distress”, lo stress patogeno!

Quest’ultimo è implicato in svariati disturbi e malattie infiammatorie croniche: patologie cardiovascolari, gastrointestinali, endocrine, metaboliche, autoimmuni, dermatologiche, tiroidee, alcune forme di cefalea e di dolore muscolare, disturbi d’ansia e depressivi, disfunzioni cognitive ed esecutive, ecc… Sottopone al rischio di altrettante patologie attraverso l’effetto immunosoppressivo. Lo sviluppo e la gravità della malattia dipende dall’interazione dello stress con fattori di predisposizione genetica, di vulnerabilità costituzionale, fattori avversi o protettivi, nonché dall’esposizione precoce, in periodi critici dello sviluppo, a esperienze stressanti; ma trattasi appunto di un elemento concausale, precipitante, o di un possibile fattore di mantenimento.

Gli stressors vengono valutati cognitivamente, ossia la persona attribuisce un significato allo stimolo stressogeno, in base a svariati aspetti, e questo ne orienta l’attivazione emozionale, connessa all’attivazione fisiologica, e le risposte comportamentali di fronteggiamento. Ciò implica che 1. C’è sempre una mediazione di pensiero, legata alla propria esperienza, ad aspetti personologici o ambientali contingenti. 2. Ciò che è vissuto come stressogeno da qualcuno può non esserlo per qualcun altro, e viceversa.

Si definiscono “stili di coping” (da to cope = far fronte) le modalità di risposta della persona di fronte agli stressors, ai carichi percepiti: stili adeguati di coping alimentano la “resilienza”, ossia la capacità della persona di resistere e fronteggiare le richieste ambientali, preservandosi dall’esaurimento, e di riorganizzare positivamente la propria vita. Il coping permette alla persona non solo di non farsi “schiacciare”, prevenendo malessere psicofisico, ma anche di elaborare nuove configurazioni di significato rispetto agli eventi, nuove consapevolezze e abilità, a supporto dell’autostima e del senso di autoefficacia; di predisporre condizioni di vita protettive, alternative a condizioni di distress, di rischio per la salute psicologica e fisica. Esistono inoltre delle tecniche, di alcune delle quali ho parlato in questo articolo www.leviedellapsiche.it/gli-effetti-degli-interventi-mente-corpo-sul-cervello-sulla-salute/, e in generale varie forme di intervento psicologico, con evidenza scientifica di efficacia in termini sia di prevenzione sia di cura delle patologie corporee stress-correlate.

I ritmi e alcune caratteristiche della società odierna hanno portato all’aumento di fattori di potenziale distress, fisico e psicologico, tuttavia, è di fondamentale importanza ricordare che, “tirando la corda”, la nostra unità mentecorpo potrà spezzarsi. E che:

 “La radice di ogni salute è nella mente. Il suo tronco è l’emozione. I rami e le foglie sono il corpo. Il fiore della salute sboccia quando tutte le parti lavorano insieme.”

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