Settembre, lasciar andare, cambiare

“Lloyd, perché secondo te le foglie diventano gialle d’autunno?”
“Credo che sia per non far provare agli alberi la nostalgia del sole d’estate, sir”
“Ma poi cadono…”
“Non sono loro che cadono, ma gli alberi che le lasciano andare, sir”
“Perchè, Lloyd?”
“Perché gli alberi sono saggi, sir. E sanno che il sole tornerà”
“E con loro anche foglie nuove. Vero, Lloyd?”
“Esattamente, sir.”

Da: Vita con Lloyd. I miei giorni insieme a un maggiordomo immaginario – Simone Tempia

Quando eravamo bambini, o ragazzi, settembre significava fine dei giochi, quantomeno quelli estivi in totale libertà dai banchi di scuola… e corsa agli armamenti per finire i compiti delle vacanze! Ma anche per gli adulti generalmente settembre significa fine delle ferie, dell’amata estate, e rientro al tran tran di studio/lavoro, approssimarsi di giornate sempre più corte, più piovose e fredde, di tristezza metereopatica. Alcuni  salutano l’estate con netto dispiacere, talvolta trovando difficoltà nel ripristino della propria routine, sperimentando tristezza, o ansia, ad esempio per i noti propositi del “se ne parla a settembre” (… che spesso diventa “se ne parla ad anno nuovo” 😉 ). Altri, al contrario, si sentono sollevati e più attivi al finire della spossatezza che possono generare le alte temperature, o, più in generale, percepiscono il mese di settembre come un fermento di nuovi progetti da realizzare, un’occasione di rinnovamento generativo: attivare cambiamenti, prendersi nuova cura di sé, premere il tasto START.

Le vacanze estive hanno un che di quelle natalizie, pur con le dovute correzioni  (ho assistito ad una variante di ferragosto festeggiato in spiaggia con tanto di addobbi natalizi e arrivo notturno di Babbo Natale per i più piccoli…), e il rientro a settembre odora di anno nuovo. La pubblicità di uno stabilimento balneare rammentava che “luglio è sabato, agosto è domenica, settembre è lunedì”; intendendo che intanto la domenica era ancora lunga!

Che siamo più nemici giurati, o più estimatori, del rientro a settembre/lunedì/nuovo anno, il cui denominatore comune può essere il (ri)partire, possiamo cogliere nell’autunno, e nelle variazioni incontrate dalla natura, uno spunto per riflettere sul cambiamento. Gli alberi in particolare, nel loro mutare colori, spogliarsi e ricaricarsi di foglie, fiori, frutti, sono emblema della ciclicità delle stagioni e dei mutamenti, e, a differenza nostra, affrontano variazioni e distacchi senza sofferenza. Il simpatico Lloyd immagina alberi un po’ nostalgici ma saggiamente consapevoli del fatto che la stagione del sole e delle foglie tornerà, e che il lasciar andare le foglie non costituisce una perdita definitiva, totale, ma una fase anzi necessaria alla propria vita e al ritorno delle foglie, nuove. Si tende generalmente ad attribuire una tristezza, un impoverimento, all’albero spoglio, e non magari un alleggerimento, una liberazione necessaria, un qualcosa che approssima all’essenziale, consentendo adattamento (se non si liberasse delle foglie, l’albero in inverno morirebbe). Ci sembra come morto, eppure non è morto, al contrario, sta seguendo il “programma” per vivere e tornare a generare. Tendiamo a confondere le estremità visibili con la linfa vitale, che continua invece a scorrere invisibilmente altrove, dentro.

La natura ha bisogno costante di trasformazione, eppure a noi umani il cambiamento, inteso in senso adattivo-migliorativo, può risultare spesso faticoso, pauroso, o doloroso.  Perché?

Innanzitutto, mentre i cambiamenti biologici sono “auto-programmati”, i cambiamenti psicologici non lo sono, cioè si innescano in un complesso di interazioni di reciproco influenzamento tra individuo e informazioni-eventi ambientali, in cui la mediazione del sistema percettivo, cognitivo, emotivo, rende tutto infinitamente più complesso, diverso da persona a persona, nella stessa persona in circostanze e tempi diversi. In parole povere subentra l’esperienza cosciente individuale, e non esiste nessun orologio/calendario biologico a selezionare esiti, scandire tempi e obiettivi, dare valore e senso alle cose… a dirci cosa è meglio per noi, quando e come. Certamente anche la nostra esperienza corporea, il nostro stato di salute, ci può segnalare che dobbiamo cambiare qualcosa per stare meglio, ma ciò non risparmia il passo interpretativo e decisionale, se accogliere o meno tale informazione, come leggerla, cosa fare.

Inoltre, benché immaginiamo il cambiamento come qualcosa di monolitico, il processo del cambiare avviene a diversi livelli: percettivo, cognitivo, emotivo, comportamentale. Muta il modo in cui vengono configurati e letti il mondo e gli eventi, i significati attribuiti, ciò che si prova, a livello emotivo e somato-sensoriale, i comportamenti. Ognuno di questi livelli può mutare in maniera più o meno profonda, più estesa o circoscritta, o in tempi diversi. A volte attuiamo in concreto un cambiamento ma non abbiamo un vissuto interiore congruente, oppure è cambiato qualcosa nel nostro modo di pensare, però non sentiamo spinta affettiva, motivazionale in quella direzione. Altre volte abbiamo maturato delle intenzioni, ponderate e sentite, ma non riusciamo a compiere le azioni necessarie per materializzare il tutto. E’ possibile e frequente incontrare ambivalenza, contrasto interno, disarmonia tra le parti, e in ogni caso non si tratta di un colpo di bacchetta magica.

Infine (in realtà in primis), l’identità, la coscienza di sé. Il noto di sé, anche quando prevalentemente spiacevole, è a volte più rassicurante e comodo di un miglioramento, per conseguire il quale si devono attraversare fasi di incertezza, di ignoto rispetto al proprio modo di fare-essere-pensarsi fino ad allora conosciuto e masticato – nonché riconosciuto dagli altri, configurando un sistema di ruoli e aspettative – di piccoli lutti, temporanei smarrimenti identitari. Oppure di perdita di alcuni benefici presenti nella condizione precedente al cambiamento, benché nettamente meno incisivi rispetto all’influsso negativo esercitato da ciò che non andava. Certamente “non si cambia se non si è in grado di rimanere se stessi”. Come l’albero attraversa le stagioni e i mutamenti senza per questo morire o diventare un altro albero, così la nostra identità si plasma, sperimenta altro da se stessa, cosa necessaria ad evolvere, ma restando fedele a se stessa, preservando un’integrazione e un senso di continuità. Un senso, unificatore.

Possiamo imparare dall’albero, che a un certo punto lascia andare le foglie per adattarsi all’inverno e tornare a generare foglie, fiori o frutti, a lasciar andare ciò che genera malessere oppure non consente evoluzione, nuova espressione, alla nostra persona. Parti di noi, abitudini, idee, sentimenti, a volte relazioni. Lasciar andare nel senso anche di liberare, slegare, far fluire: non tenere intrappolato, inespresso, qualcosa, che può ostruire il passaggio evolutivo. Lasciar andare a volte perdonando, o perdonandoci. Lasciar andare per capire cosa resta, cosa resiste, cosa è essenziale.  Lasciar andare qualcosa per lasciare noi stessi liberi di andare.

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