Primo Levi e il “senso di colpa del sopravvissuto”

Oggi ricorre il trentunesimo anniversario della scomparsa di Primo Levi, lo scrittore reduce dalla Shoah che ci ha lasciato tra le più importanti testimonianze sulla tragica realtà dei lager nazisti. L’11 aprile 1987 Primo Levi si tolse la vita gettandosi nella tromba delle scale della propria casa di Torino. Su tale gesto, che può apparire oltremodo paradossale, assurdo, è stato scritto molto, sono state formulate molte ipotesi  e resta tutt’oggi discusso. Egli stesso scriveva sul suicidio concependolo come una soluzione disperata, da comprendere, ma non da imitare.

Non è mia intenzione ripercorrere ipotesi in questa sede, o avanzare nessi causali di alcun tipo, giacché il suicidio resta il fenomeno forse più complesso e difficile da comprendere, al di fuori dei panni di chi ne matura e ne abita l’intenzione. Qualsiasi concezione svincolata dall’intimo mondo dell’individuo, benché soddisfi in parte il bisogno di capire o esorcizzare, resta teoria, orientativa ma non esauriente.

Colgo però una parte dell’immensa eredità letteraria e di memoria di Primo Levi per parlare di un fenomeno studiato e noto in psicologia come “senso di colpa del sopravvissuto”.  Nell’opera “I sommersi e i salvati” egli dedica un capitolo allo stato di angoscia dei superstiti dei campi di concentramento, descrivendo la vergogna, la colpa, la discutibile meritevolezza dell’essere sopravvissuti al posto di altre persone:

“Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegne i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. E’ solo una supposizione, anzi l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E’ una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride. (…)

E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. (…) i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che questo era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare. (…)”

Due aspetti:

  • il senso di colpa inerente all’essere sopravvissuti, connesso alla penosa sensazione di vivere al posto di qualcun altro, di dubbio, rispetto al meritarlo, di essere tacitamente, pur indirettamente, come dei complici della morte altrui, con la propria semplice salvata esistenza, o con un senso di inevitabile appartenenza allo stesso genere umano dei persecutori;
  • il senso di colpa per omissione e per incapacità di opposizione, pur se costrette dall’oggettiva impossibilità di ribellarsi e dalla natura delle violenze fisiche e psichiche, che svuotavano i prigionieri di identità e dignità umana.

“Quale colpa? A cose finite, emergeva la consapevolezza di non aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo stati assorbiti.

(…) avevamo vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le nostre giornate erano state ingombrate dall’alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone assai meno di quanto ne avremmo sofferto nella vita normale, perché il nostro metro morale era mutato. (…) Inoltre tutti avevamo rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma «agli altri», alla controparte, ma sempre furto era (…). Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente. Da questa condizione di appiattimento eravamo usciti solo a rari intervalli (…) ma erano uscite dolorose, proprio perché ci davano occasione di misurare dal di fuori la nostra diminuzione.”

La descrizione della “sindrome del sopravvissuto” origina dagli studi condotti sullo stato psicologico dei reduci dei campi di sterminio nazisti e costituisce la base della condizione psicopatologica che in seguito  – e tutt’oggi – sarà definita come Disturbo da Stress Post-Traumatico, conseguente all’esposizione a un evento traumatico che ha comportato morte o lesioni gravi ad altri o a se stessi, minacce all’integrità fisica propria o altrui.

Più nello specifico, il senso di colpa del sopravvissuto, di cui l’opera di Primo Levi ci offre importanti indicatori, è stato studiato da svariati autori, sia in rapporto all’esperienza estrema vissuta dai superstiti dell’olocausto, o da altri reduci di guerra, sia in rapporto ad altre condizioni potenzialmente traumatiche, dalla sopravvivenza ad incidenti/eventi catastrofici, alla perdita di un proprio caro… in generale, quando si sopravvive alla morte di qualcun altro.

Di recente l’espressione è stata estesa anche ad altre situazioni, in cui il senso di colpa si associa ad un percepito vantaggio, in termini di successo, abilità, fortuna, salute o benessere, nei confronti di un’altra persona percepita come “penalizzata” nel paragone.

“L’operazione cognitiva necessaria per provare senso di colpa del sopravvissuto è un semplice confronto tra le fortune del colpevole e quelle della vittima che, per generare senso di colpa, deve dare un risultato sfavorevole alla vittima. Il soggetto pone su un piatto della bilancia le proprie fortune ed i propri meriti e sull’altro quelli della vittima. Se la bilancia pende a favore del primo allora vi è senso di colpa” (Poggi, 1994).

In tutte queste condizioni tendono a presentarsi almeno due elementi: la percezione di vivere un privilegio immeritatamente e a scapito di altri, che appaiono nel confronto maggiormente danneggiati o svantaggiati; la sensazione di omissione, di non aver fatto abbastanza per prevenire il supposto danno all’altro e le sue conseguenze, o di qualche altra forma di complicità indiretta nello svantaggio dell’altro.

Il solo essere portatori di qualcosa di buono per se stessi, è come se, pur irrazionalmente e senza fondamento di realtà, in automatico, ferisse qualcun altro, o sottraesse qualcosa a qualcun altro, che sia esso ancora in vita, o, peggio ancora, che sia venuto a mancare. Nel secondo caso, di un lutto, possono subentrare questioni inerenti al ledere in qualche modo “la memoria” del defunto, della persona amata, al dimenticarla o all’ “abbandonarla”anche solo concedendosi di riprovare qualcosa di positivo in sua assenza.

Benché le espressioni e le condizioni di origine di un tale vissuto possano essere le più diverse, un intervento psicologico può fornire valide forme di supporto all’elaborazione delle ragioni che possono averlo generato, all’accettazione dell’ineluttabilità di certi accadimenti, alla rivalutazione delle percezioni erronee di colpa e responsabilità, o immeritevolezza, alla maturazione di un atteggiamento più compassionevole e meno giudicante verso se stessi.

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