Amélie, i piccoli piaceri e la visione “cieca”

Quando vidi “Il favoloso mondo di Amélie” avevo circa 15 anni, ed ero a scuola, perché fu di una professoressa l’iniziativa, altamente formativa a mio avviso, di farcelo vedere. Questo film mi entrò dentro per non uscire mai più, mi fece risuonare molte cose che provavo e sulle quali non mi ero mai soffermata a pensare. Due scene mi colpirono in particolare, una era quella dei piccoli piaceri di Amélie, e l’altra il momento in cui Amélie accompagna un signore non vedente per un breve e intenso tratto di strada.

“Coltiva un gusto particolare per i piccoli piaceri: tuffare la mano in un sacco di legumi; rompere la crosta della crème brulée con la punta del cucchiaino; e far rimbalzare i sassi sul canale Saint-Martin.” Questi sono i piccoli piaceri di Amélie descritti dalla voce narrante.

“Amélie ha la sensazione improvvisa di essere in totale armonia con se stessa. In quell’istante tutto è perfetto. La mitezza del giorno, quel profumino nell’aria, il rumore tranquillo della città. Inspira profondamente e la vita le appare semplice e limpida. A un tratto, si sente sommersa da uno slancio d’amore (…)” Qui si introduce invece l’incontro casuale della protagonista con un anziano signore cieco: lei istintivamente lo prende sotto braccio e, camminando con lui per strada, gli descrive ciò che vede in quel momento intorno a loro, diventa “i suoi occhi”.

Oltre ad essere come una carezza, nella loro semplicità, questi passaggi del film mi fanno pensare tuttora a tre cose, o meglio, alla straordinaria bellezza di tre aspetti:

  • l’intelligenza dei sensi. Diamo così per scontato il nostro rapporto, spesso di utilità, con le cose, e il modo automatico di muoverci nell’ambiente, che perdiamo di vista la portata di “scoperta” e piacevolezza dei nostri sensi. Nel modello teorico di Jean Piaget, uno dei capisaldi della psicologia, lo sviluppo cognitivo parte da uno stadio senso-motorio, in cui il bambino “comprende” il mondo in base alle informazioni sensoriali e alle manipolazioni dell’ambiente, e procede progressivamente verso la mentalizzazione, fino ad originare le operazioni intellettuali formali, il ragionamento astratto. Il pensiero rappresentazionale è certamente il fattore evolutivo che più ci distingue dagli altri membri del regno animale, tuttavia, il nostro vivere “intellettualizzato e intellettualizzante”, rischia a volte di farci astrarre dalla realtà, allontanando la nostra attenzione dall’esperienza sensoriale-corporea delle cose, che resta il canale più immediato attraverso cui accediamo al mondo. Osservare, di tanto in tanto, l’attività dei nostri sensi, equivale a nutrirci di esplorazione e meraviglia, di un piacere che solo apparentemente riguarda la superficie delle cose, in realtà le (ri)scopre nella loro natura e ci connette più intimamente ad esse, al di là dei vincoli logico-concettuali. Ci concede momenti di autentica presenza, a noi stessi e con gli altri, e di pienezza del vissuto.
  • La ricchezza dell’attimo. Un altro prodotto del nostro pensiero è il trascorrere molto tempo mentale nel passato e nel futuro, e frequentemente alla ricerca di qualcosa che ci renda felici in definitiva: tuttavia, l’unico momento che direttamente esperiamo è Adesso. Sulla preziosità dell’attimo presente è stato scritto molto, a partire dal noto “Carpe diem”. Cesare Pavese scriveva una cosa semplice ma molto significativa: “non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.”

Le memorie e le prefigurazioni del futuro ci consentono di costruire senso e progettualità, e la progettualità ci permette di investire in qualcosa di importante per noi da raggiungere. Ma alle volte tutto questo ci scollega quasi del tutto dalla ricchezza del presente, di attimi che possono nutrire significativamente la nostra vita, farci incontrare in modo più profondo con le cose e con le persone, vivere qualcosa che costituirà ciò che ricorderemo talvolta come un frammento sostanziale, identificativo di noi stessi.

  • La visione “cieca”. Nel momento in cui Amélie prende sotto braccio l’anziano signore cieco, sospende anche lei una certa forma di visione, ossia lo sguardo distratto e fugace della mente che transita in altre scenografie del passato o del futuro, o che guarda senza vedere davvero. A suo modo diviene cieca, cieca a tutto ciò che non riguardi quell’irripetibile istante, e il desiderio di incontrarsi con l’altro per condividere un tratto di strada. Non si tratta di affiancare materialmente qualcuno in difficoltà, ma di convogliare lo sguardo in un altro tipo di visione interna, sensibile all’ambiente circostante, empatica verso le persone e gli accadimenti.

Quali sono i vostri piccoli piaceri della vita? Quanta attenzione prestate ai vostri sensi? Quanto tempo trascorrete pienamente, con tutti voi stessi, nel presente?

“Se mi giudichi mi cancello!” – La paura del giudizio

La paura del giudizio altrui è un’esperienza diffusa, che tutti, in circostanze e misure diverse, sperimentiamo. La cosa si può fare problematica, come in ogni storia che ha come protagonista la Paura, quando quest’ultima arriva a precluderci occasioni di incontro con gli altri e con gli eventi, di realizzare qualcosa che per noi è importante, limitando, in generale, la nostra libertà di movimento ed espressione.

Iniziamo col dire che la paura, come tutte le emozioni, ha una funzione adattativo-evolutiva, nello specifico quella di aiutare l’uomo, da sempre, a riconoscere i pericoli per aggirarli o fronteggiarli, dunque a sopravvivere adattandosi all’ambiente.  In questo senso è un’ottima consigliera! Tuttavia, alle volte può giocare dei brutti scherzi, portandoci a distorcere aspetti della realtà, a intravedere pericolo laddove non si manifesta realmente, o a sovrastimare, nella previsione, l’entità del pericolo, la sua probabilità di accadimento, le possibili conseguenze. In questi casi è più corretto parlare di “ansia”, che differisce dalla paura proprio perché il pericolo è percepito ma non attualmente presente.

Per quanto riguarda il ricevere un giudizio negativo, la possibilità che ciò si verifichi esiste certamente, tuttavia può capitare che nella previsione ci si focalizzi esclusivamente su questo rischio, mettendo in ombra l’ampia gamma di eventi relazionali positivi, o “neutri”, che invece potrebbero presentarsi. Oppure che la lettura di certe situazioni sia selettivamente negativa: in tutti noi esiste un meccanismo, definito di “attenzione selettiva”, che porta la nostra attenzione a selezionare, appunto, alcune informazioni rispetto ad altre. E il cosiddetto “bias di conferma” (o “pregiudizio di conferma”), una sorta di distorsione operata dal pensiero, consistente nel ricercare per lo più gli elementi, i dati, che confermano una nostra credenza – tralasciando quelli che porterebbero a disconfermarla – o nell’interpretare comunque qualcosa in modo che confermi le nostre ipotesi e aspettative.  Un semplice esempio: se sto presentando un mio lavoro di fronte a un pubblico, e penso che il mio lavoro sarà giudicato male, che farò un brutta figura, apparirò impreparata ecc. (attuando già, in questo modo, una selezione previsionale degli esiti!), la mia attenzione potrebbe concentrarsi selettivamente su qualcuno che sta ridendo, o sta dicendo qualcosa all’orecchio della persona seduta a fianco, e potrei interpretare questi segnali come una conferma di ciò che mi attendevo, di essere oggetto di derisione o di giudizio negativo. Al contempo, però, ignorerei altre espressioni magari di interessamento, e spiegazioni alternative alle motivazioni per cui quel qualcuno sta ridendo, o quei due si stanno parlando. Motivazioni che di fatto non conosco, a meno che non sia telepatica, e il significato che a queste attribuisco, a distanza, è un prodotto esclusivo della mia mente.

In una prospettiva evoluzionistica, il timore del giudizio deriverebbe dalla necessità originaria, ai fini della sopravvivenza, di appartenere a un gruppo: l’uomo primitivo delle società di cacciatori-raccoglitori doveva evitare in ogni modo l’esclusione dal gruppo, poiché, al di fuori di questo, le probabilità di sopravvivere erano minime. Il confrontarsi e il conformarsi agli altri membri della tribù preveniva l’espulsione e dunque una morte quasi certa. Il bisogno di appartenenza è tutt’oggi pregnante, così come i bisogni di accettazione e stima, la cui soddisfazione ha implicazioni importanti per l’identità personale e sociale,  tuttavia sono decisamente scomparse le conseguenze letali del “non piacere a tutti i membri della tribù” 🙂 Anche perché la tribù, oggi, è potenzialmente il mondo intero!

Dunque, cosa rispondere alla paura di essere giudicati?

  • Che è impossibile piacere a tutti, e il non piacere a qualcuno per qualche ragione è un’esperienza che tutti sperimentano prima o poi nella vita. Siamo tutti diversi, con opinioni, metri di valutazione, propensioni soggettive, ampiamente variabili; ciò implica che lo stesso aspetto per il quale qualcuno ci stima e ci apprezza, in qualcun altro può generare una reazione contraria, e viceversa. Pensare di evitare una valutazione negativa in ogni situazione al 100% è realisticamente impossibile, né si può controllare la mente dell’altro, qualunque cosa facciamo o non facciamo.
  • Cedere il timone alla paura e applicare sistematicamente una strategia di evitamento di situazioni, gesti, affermazioni che possono sottoporre al giudizio altrui, può avere dei costi non indifferenti, quali:

– perdere opportunità di esperienze positive, nel lavoro, nelle relazioni e nella vita in generale. Nell’intento di evitare il rischio di esiti negativi, che potrebbero anche non verificarsi, perdiamo anche la fetta di esiti positivi e una bella fetta di libertà. Attenzione alle distorsioni previsionali, attentive e interpretative del pensiero!

Impedirci di essere noi stessi e di portare la nostra vera identità nelle relazioni. Per giunta gli altri possono avvertire un senso di non autenticità, o incontrare delle difficoltà ad instaurare una relazione più intima e di fiducia reciproca.

– Alimentare l’ansia e la preoccupazione, in un circolo vizioso che nuoce alla mente e al corpo.

  • Le critiche possono essere molto costruttive! Crescere richiede anche il sapersi mettere in discussione, accogliere punti di vista diversi, non necessariamente giudicanti in senso esteso, ma magari di stimolo e di aiuto nel migliorarci in qualcosa. A volte estendiamo una critica a tutta la nostra persona, invece può essere molto utile ricondurla al singolo aspetto che l’ha generata, che non è certamente sufficiente a definirci come persone.
  • Infine, un giudizio altrui può semplicemente restare un’informazione da noi non condivisa. Possiamo ascoltarla, e poi decidere di lasciarla scivolare via. Del resto, come recita questo passo:

“Io sono io. Tu sei tu.
Io non sono al mondo per soddisfare le tue aspettative.
Tu non sei al mondo per soddisfare le mie aspettative. 
Io faccio la mia cosa. Tu fai la tua cosa. 
Se ci incontreremo sarà bellissimo; 
altrimenti non ci sarà stato niente da fare.”

F. Perls

“Sunday blues”: il malessere domenicale

Nonostante la domenica sia per eccellenza il giorno dedicato al riposo e al tempo libero, esiste un fenomeno definito dagli anglosassoni “Sunday blues”, indicante un vago senso di tristezza, malinconia, noia o inquietudine, che può comparire la domenica, soprattutto nel pomeriggio. Secondo gli studi anglosassoni, i più colpiti dalla sindrome domenicale sono coloro che dispongono di sabato e domenica interamente liberi, vivendo dunque uno stacco netto rispetto alla settimana lavorativa. Esistono varie spiegazioni al riguardo.
La più diffusa riguarda l’approssimarsi del lunedì, dunque il cominciare a pensare preventivamente alla settimana di impegni che ci aspetta, magari a uno particolarmente gravoso in vista; laddove a qualcuno, il rimuginare anticipatorio rispetto a qualcosa di impegnativo, dà la sensazione, rassicurante sul momento, di prepararsi meglio. Oppure, soprattutto se si svolge un lavoro poco gratificante, o si affronta un periodo problematico sul lavoro, si sospira pensando al weekend appena terminato.
Un’altra spiegazione starebbe nel calo adrenalinico post-performance: dopo una settimana di intenso lavoro, ci fermiamo e cala l’attivazione psicofisiologica, si ha una sorta di “rilascio” che può essere percepito anche dal punto di vista dell’umore sotto forma di apatia o tristezza.
Esiste inoltre l’effetto “festa comandata”, che può valere tanto per le festività annuali quanto, pur in misura ridotta, per la domenica. In questo frangente confluiscono due aspetti. Uno riguarda l’applicazione del “dovere” alle emozioni o ai bisogni: “devo essere felice, o rilassato”, perché si tratta dell’unico giorno libero che si ha a disposizione e quindi va goduto a pieno, oppure deve poter essere investito e “spremuto” più possibile, facendo qualcosa di necessariamente produttivo. L’altro riguarda il confronto sociale, ossia si pensa, erroneamente, che tutti siano felici e sereni nel giorni di riposo, e ci si sente in divario, se non proprio in difetto, rispetto alla “norma” ideale.
Infine, mettendo da parte i contesti di reale solitudine, pur essendo contornati dagli affetti, si può entrare più in contatto con il proprio mondo interiore, e con pensieri o sentimenti rispetto ai quali, durante la settimana lavorativa, ci si “distrae” di più. Mentre i giorni lavorativi sono  più strutturati e scandiscono il tempo secondo certi ritmi e certi scopi, nel tempo libero ci si ritrova faccia a faccia con i propri tempi e avvenimenti interiori. Può emergere con più facilità un senso di vuoto, o di insoddisfazione, una discrepanza tra ciò che la nostra vita è e ciò che vorremmo che fosse. O dei pensieri, stati d’animo, rispetto a qualcosa di spiacevole o di irrisolto.
Che fare?
  • Innanzitutto accogliere i propri stati d’animo senza colpevolizzarsi o sentirsi “anomali”, cercare di identificarli e comprenderne il perché. Riflettere sul fatto che ciò che pensiamo circa stati d’animo ideali (“dovrei sentirmi così”), è frutto di distorsione: non ci sono regole nel sentire umano, né è realistico che tutti vivano qualcosa allo stesso modo, nemmeno nelle cose idealmente piacevoli, nonostante le apparenze o i preconcetti. Ogni emozione ha una sua ragion d’essere ed è un messaggio che merita di essere letto. E’ inoltre uno stato transitorio, al quale possiamo impedire di dominarci e di espandersi a macchia d’olio oltre la sua naturale portata. Come? Intanto accogliendolo, come una sorta di ospite che viene a raccontarci qualcosa di noi, e che poi ripartirà 🙂
  • Per quanto riguarda il rimuginare anticipatorio rispetto agli impegni della nuova settimana, l’esclusivo pensare spesso non aiuta: una relativa attivazione per una prova da affrontare può migliorare la futura performance, nella misura in cui offre la spinta per prepararsi attraverso azioni concrete; un pensare fine a se stesso, invece, rischia di far aumentare l’ansia oltremodo e a vuoto, senza benefici concreti.
  • Se il Sunday blues è la spia che si sta attraversando un periodo particolarmente stressante sul lavoro, è forse arrivato il momento di fermarsi e cercare, per quanto possibile nel proprio raggio di azione, di defaticare, delegare, cercare supporto. Ricordando che lo stress lavorativo è un pericolo per la salute psicologica e fisica, che carichi eccessivi possono portare un conto salato da pagare, e il tutto potrà finire comunque con l’inficiare anche la performance lavorativa.
  • Un sano “ozio” alle volte è davvero benefico e, sul lungo termine, più produttivo di azioni “fattive”, che per quanto connesse al tempo libero, possono stancare ugualmente. Anche in questo caso non sovraccaricarsi, non colpevolizzarsi per non aver fatto niente di operativo, poiché l’essere umano non è una macchina; e concedersi i giusti tempi di recupero e rigenerazione, anche in un piacevole “far niente”, dalle potenzialità benefiche e creative.
  • Infine, se cogliamo dentro di noi qualcosa di irrisolto, di sofferente oltremodo, di insoddisfacente, che non arricchisce e anzi “svuota” la propria vita, è l’occasione per identificarne la natura e meditare di effettuare un cambiamento, tenendo a mente che c’è sempre “un’altra via”, e un primo passo in questo senso è già un bel dono che facciamo a noi stessi, per le domeniche e tutti i giorni che verranno.

Perché le “Vie della Psiche”?

Perché le “vie” rappresentano possibilità di trasformazione evolutiva. Vie d’uscita, sentieri di entrata, prospettive, orizzonti, nodi di scambio, nodi di unione… E in generale il senso del Possibile, del poter fare e poter essere, plasmando il sentiero come il fiume modella il proprio letto.

Uno dei concetti che ho trovato molto significativo durante la mia formazione è stato quello di “viabilità”, che sottende l’importanza della percorribilità di soluzioni e significati. Non esistono vie universalmente giuste o sbagliate, e c’è sempre un’altra via percorribile, rispetto ad una strada senza uscita: un’altra opportunità, un altro modo di vedere, sentire, fare le cose, di rileggere la propria storia e di scrivere nuovi capitoli.

(…) Viandante, le tue orme sono

il cammino e niente più;

viandante, non esiste il cammino,

il cammino si crea camminando

(…) passo dopo passo, verso dopo verso.

A. Machado

Questo concetto mi ha sempre richiamato l’immagine e il funzionamento del nostro cervello, le vie sinaptiche, il fenomeno della plasticità cerebrale, ossia la capacità del cervello di rimodellarsi nella sua struttura e funzionalità, di dar vita a nuovi circuiti neurali, attraverso l’esperienza. Contrariamente a quanto si riteneva tempo fa, oggi sappiamo che questa facoltà trasformativa del cervello perdura per tutta la vita, in un complesso meccanismo di perdite-riparazioni-guadagni.

Mi richiama inoltre una parabola indiana che mi è molto cara, intitolata “I sei ciechi e l’elefante”.

Riassumendo: sei saggi ciechi vogliono conoscere un elefante. Ognuno tocca una parte del corpo dell’elefante e, al tatto, ci identifica qualcosa di diverso.

Ad esempio: “il primo gli toccò l’orecchio grande e piatto. Lo sentì muoversi lentamente avanti e indietro. «L’elefante è come un ventaglio», proclamò.  Il secondo toccò le gambe dell’elefante. «E’ come un albero», affermò.
«Siete entrambi in errore», disse il terzo. «L’elefante è simile a una fune». Egli stava toccando la coda dell’elefante.” (…)

Insomma, i sei saggi ciechi finiscono col litigare su cosa sia realmente un elefante, ognuno difendendo strenuamente la propria posizione, e non arrivano mai a conoscerlo, di fatto, integralmente.

Questa parabola può essere interpretata in vari modi, ma ciò che più ne ho tratto io è il limite ingannevole di una prospettiva unica sulla realtà, l’importanza di allargare ed integrare la visione, di non fermarsi alla prima sensazione o esperienza, o a un preconcetto, per cogliere qualcosa il più possibile nella sua interezza.

In conclusione, le Vie della Psiche sono infinite, da più punti di vista!

Un po’ di presentazioni

Benvenuti!

Mi chiamo Serena Raspi, sono nata a Volterra nel 1987 e sono una psicologa iscritta all’Ordine degli Psicologi della Toscana (iscrizione n° 7795), specializzanda in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale presso IPSICO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva.

Mi sono formata in parallelo nell’ambito della valutazione e riabilitazione neuropsicologica dell’adulto e dell’anziano, di diverse tecniche di intervento psicologico nei vari quadri di demenza e di altri deficit cognitivi acquisiti; in “libroterapia”, ossia l’utilizzo della lettura di narrativa, individuale o di gruppo, come strumento terapeutico o come risorsa di riflessione e di crescita. Ho effettuato corsi inerenti la conduzione di gruppi di sostegno e riabilitazione, in area clinica e della salute e neuropsicologica. Iscritta all’associazione EMDR Italia, ho acquisito la formazione di I livello nella tecnica EMDR e conseguito la certificazione di I livello di Compassion Focused Therapy (CFT); partecipato a workshop e training concernenti la Mindfulness-Based Therapy, il Mindful Eating e l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT).

Attualmente ricevo in regime libero professionale, occupandomi di psicologia clinica, psicologia della salute, psiconutrizione, psicodermatologia, neuropsicologia dell’adulto e dell’anziano, presso:

  • ambulatori della Farmacia Comunale di Santo Pietro Belvedere – Capannoli
  • Studi Medici Specialistici Dott. Rimini a Pontedera
  • Centro Medico Fisiosport a Volterra.

⇒⇒⇒ Per i contatti, sedi e ulteriori informazioni sulle attività, è possibile scorrere tra le varie voci del MENU’ nella parte superiore della pagina.

Sto inoltre svolgendo attività clinica di specializzazione in psicoterapia presso l’Unità Funzionale Salute Mentale Adulti zona Valdera – Azienda Usl Toscana nord ovest.

Quali principi ispirano il mio lavoro di psicologa?

Qualche cenno ricorrendo a qualche preziosa citazione 🙂

  • “Una voce non porta a termine nulla e nulla decide, due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere”. M. Bachtin

Essere significa “essere-in-relazione”, all’interno di una trama narrativa che produciamo attraverso descrizioni, costruzioni di senso e dialoghi continui, con gli altri e con gli eventi. Non esiste Sé senza la dialettica con l’Altro. Credo fermamente nel potere benefico delle relazioni, nella misura in cui relazioni e parole possono distruggere ma possono generare, possono essere muri, ma trasformarsi in finestre. E credo con altrettanta forza nelle relazioni di aiuto professionale, quando si rivelano necessarie. E’ oramai ampiamente dimostrato che la relazione terapeutica, nel contesto del lavoro psicologico, è il fattore che principalmente “cura”. Aggiungerei, non solo e non sempre nell’accezione molto diffusa del “curare” un disagio, ma anche del “prendersi cura”, a partire da un ascolto empatico e un’accettazione di ciò che la persona è e giunge ad esprimere; nonché del “potenziare”, “promuovere”, “far sviluppare”.

  • “Anche un viaggio di mille miglia inizia con un passo”. Lao Tzu

Talvolta la via da percorrere per uscire da una situazione problematica e conseguire cambiamenti positivi per la propria vita, può apparire confusa, lunga, piena di ostacoli. Il primo passo può addirittura essere percepito come il più difficile, ma il compierlo è:

1. l’unico modo di affrontare qualsiasi cammino. 2. L’opportunità di scoprire risorse per il viaggio che non pensavamo di avere, di ridimensionare tappe e difficoltà… di imparare a godersi il viaggio.  3. Un dono che facciamo a noi stessi, iniziando a costruire ciò che ci fa stare bene. Senza dimenticare che l’acqua, goccia dopo goccia, riesce a scalfire la pietra!

  • “Le stelle oltre il muro sono un fatto sicuro per chi non ha gli occhi stanchi”.  F. Giurato

Ci sono momenti in cui qualcosa ci fa perdere di vista i nostri desideri, o il bello della vita, ciò che ci fa brillare gli occhi. Ma anche dietro la muraglia più alta, tutto questo c’è ancora. La fiducia nel poterlo ritrovare o nell’affidarsi a qualcuno che ci aiuti a ritrovarlo, è un altro grande passo.

  • “Non smettere mai di scolpire la tua statua interiore.” Plotino

Ognuno è il più grande scultore di se stesso, e scolpire se stessi implica anche liberarsi di ciò che non appartiene al proprio vero essere, gli impedisce di emergere, esprimersi e vivere da protagonista.

  • “Il corpo è un grande sistema, una cosa molteplice con un senso solo: è guerra e pace, gregge e pastore (…) C’è più ragione nel tuo corpo che non nella tua migliore sapienza.” F. Nietzsche

Contrariamente ai pensieri residuali circa la storica frattura tra mente e corpo, siamo di fatto una macchina integra fatta di circolari interdipendenze tra le parti: il corpo “parla” sempre, talvolta facendo le veci di stati interiori in qualche modo non riconosciuti e non espressi, “bypassati dalla ragione”. In questo senso è la più vera, immediata, ragione, pur talvolta al prezzo del malessere fisico. Le emozioni non sono solo contenuti psichici (non esiste in noi un cassetto -psiche separato da un cassetto -corpo 🙂 ) ma hanno anzi primariamente, su base evolutivo-adattiva, una componente fisiologico-corporea –> L’attivazione del sistema nervoso influenza il funzionamento di vari apparati del nostro corpo. Sempre più la letteratura scientifica evidenzia i meccanismi neurofisiologici ponte tra stati psico-affettivi ed esiti corporei.

  • “C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce.” L. Cohen

Le ferite, le “rotture”, psichiche o psicofisiche, per quanto dolorose possano essere, sono aperture. La sofferenza interviene a portare un messaggio, e una richiesta di più fine e profondo ascolto di noi stessi, per poter decifrare questo messaggio. L’esperienza del dolore può farsi tramite di un contatto rinnovato, e più ricco, con noi stessi, e tra noi stessi e il mondo. Può scavare ferite che tuttavia sono come dei condotti destinati a convogliare una nuova luce; può farci sentire deboli, laddove invece siamo tutti semplicemente e indistintamente umani, e possiamo necessitare di un tempo e di uno spazio adeguato per ascoltare e prenderci cura della nostra mente e del nostro corpo. Non è segno di debolezza, bensì di grande coraggio, il sapersi “fermare”, e cercare un aiuto professionale quando se ne sente il bisogno. Ci vuole coraggio per lasciarci guidare dalla saggezza di ciò che proviamo, e farci prendere per mano da qualcuno per capire insieme cosa sta accadendo, e cosa possiamo fare, di ciò che ci sta accadendo.

In conclusione:

“Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire. Pertanto, dobbiamo fare dell’interruzione un nuovo cammino, della caduta un passo di danza, della paura una scala, del sogno un ponte, del bisogno un incontro.” F. Sabino