“L’uomo si costruisce sempre una dipendenza nell’ambire alla libertà”

La ricorrenza del 25 aprile è sempre stata per me molto significativa e generatrice di spunti per pensare alla libertà, sia nel contesto degli eventi storici cui rimanda, sia in un’ottica psicologica e sociale, in riferimento all’attualità e alla natura, oggi più poliedrica e complessa, dell’essere liberi, lasciando gli altri liberi di essere.

Il termine “libertà” deriva dal latino “libertas”, che indicava in origine la condizione di uomo libero  in opposizione a quella di schiavitù.  Da notare che il prefisso latino lib- caratterizza termini che esprimono piacere, gradimento (lĭbentěr significa  “volentieri,  con  piacere”; lĭbentĭa, “gioia, piacere”). Per quanto riguarda l’origine greca della parola, “eleutheria”, la sua radice pare essere “eleuthein hopos ero”, ovvero “andare come desidero” (Hannah Arendt, La vita della mente, 1978).

La presenza di una componente semantica inerente al piacere e al desiderio nell’etimologia del termine mi induce ad una prima dimensione, un primo ordine di riflessione sulla libertà, quello relativo alla mediazione tra “Principio di piacere” e “Principio di realtà”, teorizzata da Sigmund Freud. Secondo Freud, “la libertà non è un beneficio della cultura: essa era più grande prima di qualsiasi cultura, e ha subìto delle restrizioni lungo l’evolversi della civiltà” (Il disagio della civilità, 1930).

La civiltà è resa possibile dal “Principio di realtà”, quale complesso di norme culturali, morali, civili, sociali, interiorizzato dall’individuo, che regola, modera, il “Principio di piacere”, ossia la tensione verso la soddisfazione immediata di istinti e pulsioni. Si parla quindi di un giocoforza tra la ricerca di gratificazione dei bisogni individuali e le esigenze del vivere in una collettività civilizzata, tra gli altri e con gli altri. Quegli altri di cui pure abbiamo bisogno, in quanto animali sociali sin dalle origini, e attualmente guidati tanto da bisogni di autorealizzazione, quanto da bisogni di appartenenza, di stima, di appartenenza e di sicurezza (modello della piramide dei bisogni di Abraham Maslow, 1954).

Un secondo punto derivante è dunque il rapporto tra individualità e relazionalità. La parabola di Arthur Schopenhauer “Il dilemma del porcospino” (Parerga e parapolimena, 1885) illustra come ogni uomo incontri e debba confrontarsi con le “spine” dell’altro, proprio nel tentativo di soddisfare il suo bisogno dell’altro. In una notte d’inverno alcuni porcospini alternano avvicinamento e distanziamento tra di loro, mossi ora dal bisogno di riscaldarsi, ora dal dolore generato dalle spine reciproche. La “moderata distanza reciproca” che raggiungono, quale via risolutiva di uscita dal dilemma, appare abbastanza semplice nel caso specifico, immaginandola come questione per lo più spaziale, ma si complessifica nel contesto del rapporto con un “altro” umano, che costituisce tutto un altro “mondo possibile” rispetto al proprio, di caratteristiche, significati, linguaggi, esigenze. L’incontro tra due o più persone mi piace pensarlo come incontro di “mondi possibili”, espressione e concetto che amo prendere in prestito dallo psicologo Jerome Bruner. E questo dilemma si sviscera e si traduce nella necessità di gestire e integrare, in una miriade di situazioni quotidiane che si pongono come microdilemmi, il bisogno di affermazione individuale e il bisogno di relazione; il bisogno di autopreservazione, dal dolore e dalle minacce alla nostra integrità psicoaffettiva, e il bisogno di cure e di sicurezza psicologica offerte dall’altro, e da offrire all’altro. L’altro può darci calore, ma può anche ferirci.

Si può credere di investire tutto sul polo dell’individualità, attuando stili relazionali e comunicativi “aggressivi”, che tendono all’imposizione delle proprie idee e esigenze, al prevaricare l’altro, oppure rinunciando alle relazioni, evitandole. O si può pensare di annullare la propria individualità centrando tutto sul polo dell’altro, assumendo disposizioni passive che, in un modo o nell’altro, possono comportare comunque un evitamento, una rinuncia alle relazioni, o una non autenticità delle stesse. Una “moderata soluzione reciproca” può consistere nell’assertività, la capacità di esprimere in modo chiaro e congruente le proprie opinioni, emozioni, esigenze, rispettando al contempo quelle altrui, senza prevaricare e senza essere prevaricati: essere presenti a se stessi lasciando essere gli altri.   Tale capacità presuppone altre abilità, quali quelle di lettura della propria mente, di riconoscimento dei propri stati psichici e dei propri bisogni, di lettura empatica della mente dell’altro, e di differenziazione tra la propria mente e quella altrui; abilità definite di “metacognizione”. Presuppone il sapersi riconoscere e concedere, per primi, la libertà di essere chi si è, lasciando l’altro libero di essere chi è, e di esprimerlo. Il saper lasciar andare, quando non c’è compatibilità con l’altro. Il saper stare con se stessi, pur non piacendo necessariamente a tutti gli altri (e, a volte, nemmeno a se stessi) e senza pretendere che l’altro si plasmi a nostro piacimento, al di fuori delle sue libere valutazioni e volontà.

La libertà di essere non è un fatto isolato e definitivo, non può realizzarsi in un “mors tua, vita mea”; è un processo. Si muove su un continuum tra due capi che sono “io” e “l’altro da me”, poiché l’identità stessa esiste e si ridiscute costantemente nella dialettica con l’alterità, con gli oggetti e gli eventi dell’ambiente esterno e con gli altri relazionali.

Libertà è costruire la propria autonomia ed emancipazione materiale e morale, identitaria, affettiva. Richiede autostima, senso di autoefficacia e agentività: volersi bene, avere fiducia nelle proprie capacità di conseguire obiettivi e di affinare strumenti per conseguirli, di incidere sulla realtà e di essere al timone della propria vita.

Ma è anche sapersi riconoscere fragili, vulnerabili, portatori di bisogni socioaffettivi. Saper riconoscere il limite, nel senso dei limiti e imperfezioni di ognuno, e del limite dato dalla condizione stessa dell’esistenza umana. Saper condividere o anche cedere, il timone.

Mi vengono in mente due film. Uno, “Film blu” di Krzysztof Kieślowski (1993), appartenente a una trilogia (Film blu, Film bianco, Film rosso) i cui film sono ispirati ai colori della bandiera francese, rispettivamente associati ai temi della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. Il “Film blu”, che parla appunto della libertà, narra la storia di una donna che ha appena perso il marito e la figlia di 7 anni in un incidente, e che, nel vissuto del dolore di un lutto di tale portata, inizia ad estraniarsi e ad indurirsi nei confronti della vita e di tutti i rapporti umani, evitando di investire nuovamente in qualcosa o qualcuno per preservarsi da eventuali altre sofferenze.

“Ero felice, mamma. Li amavo e loro mi amavano. Non mi ribellavo… E sarebbe stato così per tutta la vita. Ma è successo quel che è successo, e adesso non ci sono più. (…) Ho capito che, se è successo questo, adesso farò soltanto quello che voglio. Niente. Non voglio più né proprietà, né ricordi, amici, amore o legami. Sono tutte trappole.”

Con il tempo a lei necessario, e attraverso il supporto di altri legami, si accorgerà di quanto questa sorta di “liberazione coatta” dagli affetti, che diviene rinuncia alla vita, la stia rendendo prigioniera, a scanso dei rischi che naturalmente vivere e amare, comporta.

L’altro film, “La stoffa dei sogni”, di Gianfranco Cabiddu (2016), lo chiamo in causa per una citazione, che trovo significativa in generale ed esemplificativa per la storia e il concetto appena espressi:

“l’uomo si costruisce sempre una dipendenza nell’ambire alla libertà”. 

Ho interpretato questa frase nel senso, più controproducente, di costruirsi prigionie allo scopo ideale di liberarsi, laddove una tale aspirazione può celare una rinuncia, che a sua volta sottende una paura. Ma anche nel senso del non poter del tutto fare a meno dell’altro, già solo perché l’altro ci consente di (ri)conoscerci; e non poter fare a meno di regole, nel gioco relazionale e oltre, per la gestione delle angosce connesse al disordine, all’incertezza, all’ignoto, a ciò che è incontrollabile o inspiegabile. Per il bisogno di significare. Queste regole possono essere più o meno funzionali e benefiche, e sono sempre le nostre, costruite, passibili di essere riviste, adattate, ri-significate, co-costruite. Almeno al di fuori di un regime di cieca obbedienza, dunque di schiavitù.

La libertà è, inoltre, essere disposti ad assumersi responsabilità, non nell’accezione moralistico-punitiva di “colpa”, ma in quella più immediata di essere artefici, di esercitare consapevolmente una volontà, disponibili a correre dei rischi e ad affrontare conseguenze. Il sociologo Zygmunt Bauman, sosteneva che “Il destino di un essere libero è pieno di antinomie non facili da valutare e da cui è ancor più difficile districarsi. Consideriamo (…) la pietosa condizione della riconquistata responsabilità, che naviga pericolosamente tra gli scogli dell’indifferenza e della coercizione” (Modernità liquida, 2000).

Proprio la storia del radicamento del regime nazifascista fornisce un drammatico esempio di due pericolose derive, quella della deresponsabilizzazione, dell’accettazione passiva, del non vedere e non fare, e quella, massimamente aggressiva, della totale identificazione nel fanatismo dittatoriale. Tutt’oggi si assiste al proliferare, complici l’effetto di polarizzazione dei media ed altri complessi fattori socioeconomici e psicologici, di due opposti atteggiamenti: da un lato disillusione, disinvestimento, disimpegno, cinismo e tacita rassegnazione, dall’altro focolai di idee fanatico-totalitarie, sostenuti, tra le varie, dall’esigenza di identificare “capri espiatori” (concetto formulato dall’antropologo René Girard) tramite i quali esimersi dalla propria fetta di responsabilità individuale. In verità scegliamo sempre, anche quando non scegliamo. Come affermava Paul Watzlawick, “non si può non comunicare”. Anche il silenzio, l’omissione di azioni, è comunicazione ed è azione.

Mi viene a questo punto alla mente Burrhus F. Skinner, esponente di spicco della corrente comportamentista in psicologia, i cui contributi, in parte giunti sino ad oggi per l’indiscutibile importanza delle derivazioni applicative, non furono tuttavia esenti da critiche, rivolte alla frangia più estrema dell’ambientalismo e dell’assunto di fondo per cui qualsiasi risposta comportamentale messa in atto è il frutto di rinforzi e di condizionamenti socioambientali. Nell’opera “Oltre la libertà e la dignità” (1972), Skinner ipotizza, quale unica soluzione per la sopravvivenza della specie umana, il controllo sistematico del comportamento per mezzo della tecnica comportamentista, mettendo da parte le idee di libertà individuale, responsabilità e dignità.

Questo mi porta a dire una cosa, in conclusione: è vero che lo sviluppo dell’uomo risente in parte, necessariamente, di svariati condizionamenti ambientali, ed è vero che agire in relativa libertà, con responsabilità e dignità, è cosa complessa, non sempre realizzabile e sempre perfettibile. Ma credo si debba prestare attenzione a non confondere la libertà con l’onnipotenza, i limiti della libertà con i limiti e le caratteristiche più intime dell’essere uomini; a non rendere la complessità un accomodante motivo per vivere dietro il dito di qualcun altro, puntare perennemente il dito contro qualcun altro, rinunciare a prendersi per mano o a camminare da soli in quella zona che abbisogna dello stare con noi stessi, per poter stare autenticamente con gli altri.

“Ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia a ogni speranza, tra i piaceri dell’anarchia e quelli dell’ordine, tra il Titano e l’Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi, l’armonia.”

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano

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