Cosa FA e cosa NON FA lo psicologo

Proviamo adesso a riflettere su alcuni dei “miti falsi e più falsi” diffusi rispetto alla figura dello Psicologo, poiché ci potrà essere molto utile per capire cosa realisticamente egli fa e rappresenta e cosa invece NON fa:

  • «Dallo psicologo vanno solo i matti/i deboli.»

Dallo psicologo vanno le PERSONE, per una gamma molto vasta di problematiche, necessità e desideri, cui seguiranno risposte e tipologie di lavoro anche molto diverse tra di loro, commisurate a necessità e obiettivi. La scelta di rivolgersi ad uno psicologo quando se ne percepisce l’esigenza non è sinonimo di “matto”, ma al contrario di persona presente a se stessa, nel pieno della sua coscienza, né di “debole”, trattandosi anzi di una scelta di grande coraggio e responsabilità.

  • «Lo psicologo lavora più che altro con il disagio.»

Di nuovo, lo psicologo lavora con le PERSONE, con quello che hanno dentro e con una domanda, un bisogno, che esse portano. In primo luogo è da chiarire che lo psicologo non interviene sempre o solo su una sofferenza già in atto, ma opera anche in termini di prevenzione e/o di crescita e sviluppo personale: promuove cambiamenti, supporta svolte decisionali, effettua interventi di “empowerment”, ossia di potenziamento della persona, di ampliamento di possibilità, di arricchimento della “cassetta degli attrezzi” per l’ “agentività” ⇒ la capacità di esercitare un potere trasformativo sulla realtà e sulla qualità della propria vita. O anche, semplicemente, aiuta la persona ad acquisire consapevolezza su qualcosa che ha dentro, che riguarda se stessa o le sue relazioni.

Inoltre: nonostante esistano delle categorie nominali della sofferenza psicologica, queste esistono e sono necessarie per rispondere alle esigenze di studio e di ricerca scientifica della disciplina. Tuttavia, nel contesto del lavoro clinico, lo scopo non è quello di pervenire ad un’etichetta e lavorare su etichette, bensì di giungere a una comprensione della sofferenza che la persona stessa esprime, attraverso le sue stesse parole; definire un problema e un bisogno, e giungere a una descrizione dinamica delle modalità di funzionamento della persona, con le sue risorse e difficoltà. Questo è un lavoro a due voci, in cui la persona mette il proprio mondo interiore, di cui è l’esperta, e lo psicologo, esperto dei processi psicologici e delle relazioni, offre conoscenze, competenze e strumenti di lavoro per aiutare la persona a conseguire alcuni obiettivi.

  • «Lo psicologo si occupa comunque più di disagio, mentre altre figure offrono una semplice “consulenza su un problema circoscritto”.»

In aggiunta a quanto già descritto, la “consulenza su un problema”, che sia circoscritto o più ampio, riguardante la sfera psicologica e relazionale, è stretta competenza dello psicologo. Posto che per “migliorare noi stessi”, per “acquisire consapevolezza”, per “crescere interiormente”, “per risolvere un problema” (ecc.), si può ricorrere a svariate esperienze o tipologie di relazioni, qualora si percepisca il bisogno di un aiuto professionale, è da sapere che lo psicologo è il professionista peculiarmente e legalmente formato per fare tutto questo. Contrariamente a ciò che si può immaginare, la sua formazione, a partire da quella universitaria, non coinvolge solo lo studio della sofferenza psicologica, ma, in primis, lo studio del funzionamento psicologico di base e delle sfide evolutive che naturalmente il vivere ci pone lungo l’intero arco di vita.

Il corpus di teorie e la vasta letteratura scientifica di cui lo psicologo dispone, la lunga e spesso eterogenea formazione, così come la regolamentazione della sua professione e la vigilanza cui è sottoposta, sono tutte tutele per i cittadini che ad esso si rivolgono. Rivolgersi, dietro compenso, a figure di aiuto regolamentate o non regolamentate dalla legge, appartiene alla libertà di scelta dei singoli; è tuttavia legittimo sapere che le figure non regolamentate non sono invece sottoposte a norme, percorsi formativi ufficiali, doveri o controlli di nessun tipo, né esistono organi atti a vigilare e intervenire a tutela dei beneficiari.

  • «Il percorso psicologico richiede tempi troppo lunghi.»

Immaginiamo di dover preparare un dolce, che richiede alcuni ingredienti, un procedimento scandito da delle fasi, in cui gli ingredienti vengono progressivamente inseriti e lavorati, e delle tempistiche. Non possiamo pretendere di ottenere il miglior risultato alterando o rinunciando ad ingredienti, fasi (incluse le fasi di “riposo” dell’impasto, quando sono richieste) o tempi. O meglio, tutto dipende dal risultato che vogliamo ottenere, e dal tipo di “dolce” che desideriamo preparare!

Traducendo: il lavoro da affrontare, le fasi e i tempi di cui necessita, dipendono dall’obiettivo che ci poniamo. Il tutto viene concordato nel contesto degli incontri iniziali: dopo una prima fase di conoscenza reciproca e di definizione dei bisogni e obiettivi della persona, è possibile pianificare insieme un percorso di lavoro stringendo un’ “alleanza”, di cui l’unico fine, condiviso, è il benessere della persona. Sarà poi possibile anche rivedere e ridefinire in itinere, il piano di lavoro, ma in buona parte esso viene concordato inizialmente, ed il tempo di cui necessiterà dipende appunto dalla qualità degli obiettivi prefissati e dei risultati che vogliamo ottenere.

E’ ben comprensibile l’auspicarsi i risultati migliori nel minor tempo possibile, ma a volte, come illustrato nell’esempio della torta, certi ingredienti e certe fasi non possono essere saltati; il rischio è quello di intraprendere percorsi eccezionalmente brevi, o che si limitano a tangere il problema senza addentrarcisi, con un pur relativo investimento, ma appunto senza centrare la questione, dovendosi poi rivolgere altrove con ulteriore spesa. Un mito opposto è quello dell’analisi che dura una vita intera: esistono senz’altro concezioni e conformazioni di interventi di durata molto lunga (intendendo anni e anni, decenni), in seno a determinate correnti terapeutiche o a fronte di situazioni particolarmente critiche per cui è necessario un percorso di monitoraggio-mantenimento, ma si tratta oggigiorno di rarità, piuttosto che della regola.

  • «Lo psicologo mi dirà come devo essere e/o cosa devo fare.»

Lo psicologo non fornisce, in nessun caso, né giudizi di valore né direttive sul modo di essere e di agire delle persone. Non prende scelte al loro posto, non si sostituisce ad esse, a ciò che provano, pensano, o scelgono di fare, in alcun modo. Lo psicologo accoglie una persona esattamente per ciò che essa è, attraverso un ascolto empatico, ovvero un ascolto del suo mondo “come se” fosse il proprio, senza mai dimenticare, tuttavia, il “come se”.

Come già accennato, la persona è e resta l’unica esperta-artefice di se stessa e della propria vita, mentre lo psicologo offre strumenti professionali di ascolto, comprensione e intervento riguardo a processi psicologici e relazionali.

Anche in questo caso può essere utile ricorrere all’immaginazione! Se immaginiamo noi stessi come degli strumenti musicali a corda, e immaginiamo momenti in cui ci possiamo “scordare”, lo psicologo è colui che ci aiuta a “ri-accordarci”, autonomamente, per generare nuova musica, nell’armonia delle parti che ci compongono. Tuttavia, la musica che generiamo è soltanto nostra, unica e di irripetibile valore, e nessuno può suonarla al posto nostro.