Primo Levi e il “senso di colpa del sopravvissuto”

Oggi ricorre il trentunesimo anniversario della scomparsa di Primo Levi, lo scrittore reduce dalla Shoah che ci ha lasciato tra le più importanti testimonianze sulla tragica realtà dei lager nazisti. L’11 aprile 1987 Primo Levi si tolse la vita gettandosi nella tromba delle scale della propria casa di Torino. Su tale gesto, che può apparire oltremodo paradossale, assurdo, è stato scritto molto, sono state formulate molte ipotesi  e resta tutt’oggi discusso. Egli stesso scriveva sul suicidio concependolo come una soluzione disperata, da comprendere, ma non da imitare.

Non è mia intenzione ripercorrere ipotesi in questa sede, o avanzare nessi causali di alcun tipo, giacché il suicidio resta il fenomeno forse più complesso e difficile da comprendere, al di fuori dei panni di chi ne matura e ne abita l’intenzione. Qualsiasi concezione svincolata dall’intimo mondo dell’individuo, benché soddisfi in parte il bisogno di capire o esorcizzare, resta teoria, orientativa ma non esauriente.

Colgo però una parte dell’immensa eredità letteraria e di memoria di Primo Levi per parlare di un fenomeno studiato e noto in psicologia come “senso di colpa del sopravvissuto”.  Nell’opera “I sommersi e i salvati” egli dedica un capitolo allo stato di angoscia dei superstiti dei campi di concentramento, descrivendo la vergogna, la colpa, la discutibile meritevolezza dell’essere sopravvissuti al posto di altre persone:

“Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegne i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. E’ solo una supposizione, anzi l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. E’ una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride. (…)

E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. (…) i giusti fra noi, non più né meno numerosi che in qualsiasi altro gruppo umano, hanno provato rimorso, vergogna, dolore insomma, per la colpa che altri e non loro avevano commessa, ed in cui si sono sentiti coinvolti, perché sentivano che questo era avvenuto intorno a loro, ed in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare. (…)”

Due aspetti:

  • il senso di colpa inerente all’essere sopravvissuti, connesso alla penosa sensazione di vivere al posto di qualcun altro, di dubbio, rispetto al meritarlo, di essere tacitamente, pur indirettamente, come dei complici della morte altrui, con la propria semplice salvata esistenza, o con un senso di inevitabile appartenenza allo stesso genere umano dei persecutori;
  • il senso di colpa per omissione e per incapacità di opposizione, pur se costrette dall’oggettiva impossibilità di ribellarsi e dalla natura delle violenze fisiche e psichiche, che svuotavano i prigionieri di identità e dignità umana.

“Quale colpa? A cose finite, emergeva la consapevolezza di non aver fatto nulla, o non abbastanza, contro il sistema in cui eravamo stati assorbiti.

(…) avevamo vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le nostre giornate erano state ingombrate dall’alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone assai meno di quanto ne avremmo sofferto nella vita normale, perché il nostro metro morale era mutato. (…) Inoltre tutti avevamo rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma «agli altri», alla controparte, ma sempre furto era (…). Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente. Da questa condizione di appiattimento eravamo usciti solo a rari intervalli (…) ma erano uscite dolorose, proprio perché ci davano occasione di misurare dal di fuori la nostra diminuzione.”

La descrizione della “sindrome del sopravvissuto” origina dagli studi condotti sullo stato psicologico dei reduci dei campi di sterminio nazisti e costituisce la base della condizione psicopatologica che in seguito  – e tutt’oggi – sarà definita come Disturbo da Stress Post-Traumatico, conseguente all’esposizione a un evento traumatico che ha comportato morte o lesioni gravi ad altri o a se stessi, minacce all’integrità fisica propria o altrui.

Più nello specifico, il senso di colpa del sopravvissuto, di cui l’opera di Primo Levi ci offre importanti indicatori, è stato studiato da svariati autori, sia in rapporto all’esperienza estrema vissuta dai superstiti dell’olocausto, o da altri reduci di guerra, sia in rapporto ad altre condizioni potenzialmente traumatiche, dalla sopravvivenza ad incidenti/eventi catastrofici, alla perdita di un proprio caro… in generale, quando si sopravvive alla morte di qualcun altro.

Di recente l’espressione è stata estesa anche ad altre situazioni, in cui il senso di colpa si associa ad un percepito vantaggio, in termini di successo, abilità, fortuna, salute o benessere, nei confronti di un’altra persona percepita come “penalizzata” nel paragone.

“L’operazione cognitiva necessaria per provare senso di colpa del sopravvissuto è un semplice confronto tra le fortune del colpevole e quelle della vittima che, per generare senso di colpa, deve dare un risultato sfavorevole alla vittima. Il soggetto pone su un piatto della bilancia le proprie fortune ed i propri meriti e sull’altro quelli della vittima. Se la bilancia pende a favore del primo allora vi è senso di colpa” (Poggi, 1994).

In tutte queste condizioni tendono a presentarsi almeno due elementi: la percezione di vivere un privilegio immeritatamente e a scapito di altri, che appaiono nel confronto maggiormente danneggiati o svantaggiati; la sensazione di omissione, di non aver fatto abbastanza per prevenire il supposto danno all’altro e le sue conseguenze, o di qualche altra forma di complicità indiretta nello svantaggio dell’altro.

Il solo essere portatori di qualcosa di buono per se stessi, è come se, pur irrazionalmente e senza fondamento di realtà, in automatico, ferisse qualcun altro, o sottraesse qualcosa a qualcun altro, che sia esso ancora in vita, o, peggio ancora, che sia venuto a mancare. Nel secondo caso, di un lutto, possono subentrare questioni inerenti al ledere in qualche modo “la memoria” del defunto, della persona amata, al dimenticarla o all’ “abbandonarla”anche solo concedendosi di riprovare qualcosa di positivo in sua assenza.

Benché le espressioni e le condizioni di origine di un tale vissuto possano essere le più diverse, un intervento psicologico può fornire valide forme di supporto all’elaborazione delle ragioni che possono averlo generato, all’accettazione dell’ineluttabilità di certi accadimenti, alla rivalutazione delle percezioni erronee di colpa e responsabilità, o immeritevolezza, alla maturazione di un atteggiamento più compassionevole e meno giudicante verso se stessi.

Quando a parlare è la pelle: nozioni di Psicodermatologia

A partire dalla mia tesi di laurea mi sono occupata di diverse implicazioni funzionali e psicologiche della pelle.  Riprendendo un passaggio del mio personale lavoro di tesi:

“la pelle è un organo estremamente complesso, in termini strutturali e funzionali: si forma nell’embrione prima di tutti gli altri sistemi sensoriali (circa verso la fine del secondo mese di gestazione; l’ectoderma è la sorgente neurologica comune della pelle e del cervello), presenta una grande densità recettoriale ed è strettamente collegata agli organi di senso esterni, rendendo l’organismo un sistema sensibile; svolge svariate funzioni biologiche fondamentali per la sopravvivenza, in maniera diretta o ausiliaria. Infine, come suggerito da Freud, il tatto è l’unico tra i cinque sensi a possedere una struttura riflessiva (…) L’intera superficie della pelle costituisce sia una frontiera identitaria-relazionale che una barriera permeabile tra interno ed esterno (…) importante superficie di contatto tra sé e gli altri, da cui la formazione del soggetto psichico, a sua volta inserito in contesti relazionali e sociali, non può prescindere”.

Le implicazioni psicologiche della pelle compaiono per la prima volta nei lavori di Esther Bick, psicoanalista britannica di matrice kleiniana (“La pelle psichica”, 1968) e di un altro psicoanalista francese, Didier Anzieu (“L’Io-pelle”, 1985).

Contributi di diverso taglio e corrente si sono susseguiti in seguito, la ricerca scientifica ha cumulato nel tempo prove a sostegno di una connessione tra stati psichici e patologie dermatologiche, e si sta facendo sempre più luce sui possibili meccanismi neurofisiologici alla base della somatizzazione, sulle modalità attraverso cui lo stress psicologico, o stati emotivi non riconosciuti/espressi/regolati, possono concausare, esacerbare, mantenere, la patologia d’organo, non solo cutanea.

Pubblicazioni scientifiche italiane e internazionali riportano, e chiariscono progressivamente, la presenza di un collegamento tra cute, sistema endocrino, sistema nervoso e sistema immunitario, in disordini cutanei quali acne, psoriasi, eczema, dermatite seborroica, prurito e alcune forme di orticaria, lichen planus, rosacea, alopecia areata ed effluvio telogen acuto e cronico (entrambe affezioni del cuoio capelluto). Vi è una crescente evidenza secondo cui lo stress influenza i processi patologici e contribuisce all’infiammazione attraverso l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il rilascio di neuropeptidi ed altri mediatori chimici dalle terminazioni nervose e dalle cellule del derma. I mastociti del derma sono connessi strettamente alle terminazioni nervose sensitive: anche i peptidi liberati dal sistema nervoso possono determinare il rilascio di mediatori pro-infiammatori.

La Psicodermatologia è una delle branche di mio interesse focalizzata appunto sullo studio delle implicazioni psicologiche e psicosomatiche, e degli interventi psicologici, nel contesto delle patologie cutanee, interventi calibrati a diversi livelli e attraverso diverse tecniche mirate. Sono disponibili dati e considerazioni su tre fronti:

1. La già menzionata interazione concausale tra psiche e soma.

2. L’esacerbazione della patologia che può essere indotta secondariamente e retroattivamente da:

  • stati ansiosi e depressivi, talvolta significativi, generati dalla presenza della patologia dermatologica, che può compromettere anche severamente l’immagine e l’identità corporea, l’autostima, i comportamenti sociali (l’evitamento delle situazioni sociali è uno dei possibili esiti).
  • Sconforto e demoralizzazione potenzialmente intervenienti nella patologia ad andamento cronico-recidivante, con annessa sensazione di impotenza e di “non poterne uscire mai”, o pensiero di dover convivere con cicatrici e segni non sempre o non del tutto rimediabili.
  • Comportamenti di ripetuto “controllo” o sfregamento della zona del derma interessata dalla malattia, che possono generare lesioni aggiuntive,
  • oppure, al contrario, di evitamento di contatto con la parte del corpo, o di forte sofferenza al contatto o alla vista della stessa, cosa che ostacola anche l’aderenza alle terapie topiche.
  • Possibile stress inerente all’attuazione della routine di cure topiche, fondamentali, ma alle volte richiedenti considerevole tempo (di applicazione e di latenza dei risultati) e costanza, applicazioni particolari; oppure all’adozione di dispositivi di camouflage (la protesi capillare nel caso di importanti affezioni del cuoio capelluto).

3. L’efficacia di precisi interventi psicologici nel miglioramento del tono dell’umore, del vissuto della patologia, del fronteggiamento della stessa e di eventuali recidive; nell’interruzione di circoli viziosi che possono alimentare il problema; nel recupero dell’autostima e di un buon rapporto con il proprio corpo; con opportunità di risoluzione o di miglioramenti significativi della patologia dermatologica in termini di dilazione/minor acuzie di eventi recidivanti.

In una meta-analisi pubblicata di recente dal British Journal of Dermatology, un team di psicologi ha analizzato i risultati di una serie di studi, rilevando che gli interventi effettuati nella branca emergente della psicodermatologia hanno apportato numerosi benefici. “E’ risaputo ormai che gli interventi psicologici possono aiutare i pazienti a gestire l’impatto emotivo del proprio problema dermatologico ” afferma Deborah Mason della British Association of Dermatologists, “ma per la prima volta, è stato verificato che sono in grado di migliorare anche i sintomi fisici”.

Data la possibile complessità di queste situazioni, una consultazione psicologica può essere molto utile in primis per un inquadramento della situazione, in parallelo all’opportuno inquadramento diagnostico dermatologico, dal punto di vista delle dinamiche psicologiche e comportamentali possibilmente coinvolte. In seconda battuta è possibile pianificare un intervento con precisi obiettivi e sotto-obiettivi, aderente alle singole criticità individuate.

Non tutto il panico viene per nuocere

“Nell’antico mito greco di Amore e Psiche, il dio Pan salva Psiche che sta per suicidarsi. Psiche vuole annegarsi ma Pan lo impedisce: come a dire che il panico è anche il momento che ci salva la vita”

James Hillman

Il termine “panico” deve le sue origini al dio Pan, figura della mitologia greca dalle sembianze caprine, dio delle selve e dei pascoli, il cui aspetto deforme, le urla emesse, particolarmente scioccanti, gli agguati improvvisi, terrorizzavano i viandanti e le ninfe che era solito inseguire nei boschi.  Pan è una creatura divina ma terrena e mortale, errante e selvaggia, che personifica l’istinto e la vitalità, l’affermazione autentica; un invito alla (ri)connessione psichica con la (propria) natura, con aspetti ignorati e scopi in conflitto tra loro, anche al costo di un’esperienza terrifica, che ha tuttavia funzione conservativa.

Nel mito di Amore e Psiche narrato da Apuleio, Psiche, straziata per la perdita del suo amato, incontra Pan proprio nel momento in cui ha deciso di togliersi la vita gettandosi nel fiume, le cui acque, devote al dio, la sollevano e la riconducono alla riva. La divinità consola Psiche, comprendendo la natura del suo dolore ma esortandola a non lasciarsene sopraffare e a riprendere il cammino. L’incontro col dio Pan per Psiche non si rivela terrorizzante, bensì confortante e salvifico, l’inversione di rotta dalla morte verso un percorso evolutivo che la porterà a ricongiungersi all’amato con nuove e più mature consapevolezze.

“Panico” rimanda etimologicamente al grande terrore improvviso sperimentato in genere da chi si imbatteva nel dio Pan. L’attacco di panico può essere infatti definito come uno “tsunami della mente”, uno stato di intensa paura che esplode in maniera incontrollabile e spesso inizialmente imprevista, inspiegabile, con una variegata gamma di sintomi somatici, che spaziano da quelli cardiaci, a quelli respiratori, gastrointestinali, sbandamenti e sensazioni di instabilità, tremori o formicolii, brividi o vampate di calore… e sintomi psichici, quali una paura di morte imminente, sul colpo, di impazzire o di perdere il controllo. Si può inoltre essere colti da una sensazione di irrealtà, di estraniamento, offuscamento mentale, di disgregazione-interruzione nella percezione della realtà o di sé nel proprio corpo (derealizzazione e depersonalizzazione), esperienze descritte in vari modi che possono spaventare molto la persona, la quale può interpretarle come un’irruzione di follia ed equivocarle con sintomi psicotici.

Le manifestazioni variano moltissimo da persona a persona per tipologia/numero dei sintomi sperimentati, e rispetto al prevalere di sintomi somatici o psichici (la predominanza di sintomi cardiaci e dolori al petto induce ad esempio tipicamente a temere di avere un infarto in corso); possono aver luogo “attacchi paucisintomatici”, caratterizzati cioè da pochissimi sintomi.

Benché il vissuto sia così immediato e imponente da indurre a credere di essere di  fronte a un reale pericolo per la propria incolumità fisica o psichica, di fatto si tratta di una fisiologica attivazione del sistema nervoso simpatico che il corpo è perfettamente programmato per sostenere. Così come le eventuali esperienze di derealizzazione/depersonalizzazione non sono segno di follia o deriva psicotica, al contrario, si è consapevoli, e proprio per questo spaventati, di un’esperienza percettiva alterata rispetto al solito, a dimostrazione di una capacità di vaglio e giudizio critico, di discernimento sulle diverse qualità del percepire la realtà, cosa che mancherebbe assolutamente in un’ipotetica psicosi.

→ L’attacco di panico è di per sé un fenomeno fisiologico che, per quanto molto sgradevole, non è dannoso né per il corpo né per la mente, non è indicativo di “instabilità mentale” e non mette a repentaglio la vita, né è pregiudizievole in alcun senso. Un episodio che può capitare a tutti, una o più volte nel corso dell’esistenza, per svariati motivi contingenti (momenti di particolare ansia, sovraccarico, stress, oppure secondariamente ad alcune condizioni mediche, o ad assunzione di sostanze psicotrope) senza destare pervasive preoccupazioni e senza affatto predeterminare un seguito di attacchi di panico. Si tratta di un segnale di allarme lanciato dal corpo, da riattribuire opportunamente al proprio mondo emotivo, una “spia”, un’occasione per individuare elementi di carico o di disagio nel proprio momento di vita, sintonizzarsi con i propri vissuti e bisogni, e fronteggiare le criticità in una maniera più adattiva e benefica.

Il disturbo di panico, caratterizzato da un cristallizzarsi, un ripetersi progressivamente più frequente degli attacchi di panico, spesso seguito da agorafobia (→ l’ansia relativa al trovarsi in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile, o imbarazzante, allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un attacco di panico), si instaura e si autoalimenta, invece, a causa di determinati meccanismi intervenienti, che vanno a radicarsi in un terreno “fertile” di incontro tra fattori più profondi di predisposizione e fattori precipitanti. Questi meccanismi implicano specifiche focalizzazioni attentive, distorsioni interpretative, e tentate strategie di gestione-protezione dagli attacchi, comportamenti di evitamento/messa in sicurezza, che paradossalmente contribuiscono al loro ritorno.

Il problema esiste su due piani: uno è il “terreno fertile”, fattori personologici e peculiari congiunture psico-relazionali nella vita della persona che la candidano in quel momento a vivere un intero capitolo, e non un sottoparagrafo ininfluente, di panico; l’altro piano, interconnesso al primo, riguarda la reazione agli attacchi, i significati attribuiti, e le strategie attuate nel tentativo di proteggersi. Un buon percorso psicologico interverrà su entrambi i piani, aiutando la persona a conoscere il “modus operandi” del panico e interrompere i circoli viziosi che contribuiscono a mantenerlo, ma anche a comprendere che cosa esso veicola in termini di significati personali, le dinamiche di cui rappresenta la “tentata soluzione”. Interventi che mirano esclusivamente o troppo celermente a “spegnere” il sintomo non produrranno risultati, o fungeranno da palliativi, rischiando però di rinforzare gli elementi che costituiscono la “miccia” e la formula interna del panico, che alla prossima fiamma produrrà un’altra detonazione. Né è realistico o producente aspirare a diventare immuni alle esperienze ansiose, dato che proprio la non tolleranza dell’ansia, e dei suoi correlati psico-corporei, è dimostrata essere un pezzettino della miccia, un fattore di innesco e mantenimento del panico (“anxiety sensitivity”, Reiss e McNally: paura delle sensazioni associate all’attivazione ansiosa, che vengono interpretate come pericolose, sulla base di erronee credenze relative alle conseguenze, fisiche, psicologiche o sociali, di queste sensazioni).

Un terzo ordine di questioni influente è socioculturale, ad intersezione di certe condizioni locali di vulnerabilità: l’incidenza degli attacchi di panico ha incontrato un enorme aumento negli ultimi trent’anni, i disturbi fobici e ansiosi caratterizzano per eccellenza il nostro tempo.  La società attuale promuove una tendenziale cultura di intolleranza, orientata alla celere rimozione, di qualsiasi stato di malessere o umana fragilità, tutto ciò che esula da un irrealistico ininterrotto benessere, associato a continue sfide di efficienza. Sono privilegiati indicatori di “immagine” a scapito di indicatori interiori; di prestazione e di successo individualistico-competitivo, a scapito del buon vivere e del bisogno di relazione.  Aumenta la complessità di molti scenari e dunque le richieste, i ritmi e gli elementi di stress psicofisico, la portata ansiogena, si sgretola la linearità dei percorsi di maturazione della propria autonomia e autoefficacia, si smaterializzano i legami e si indeboliscono i contenitori educativi e istituzionali. Il vivere appare sempre più incerto, pericoloso, al di fuori del proprio potere “agentivo”, in contrasto con la virtuale illusione di infinite possibilità e il mito di un’autosufficienza monadica esasperata. Siamo collocati in una tappa storico-culturale che è premessa del dilemma di inconciliabilità tra libertà e protezione individuato da Ugazio nella semantica critica dei disturbi fobici: “E’ infatti presente nella nostra cultura un certo grado di intransitività fra il mantenimento dei legami, il riconoscimento che l’altro ci è necessario e l’autostima che riponiamo in noi stessi in quanto soggetti autonomi e indipendenti” (Ugazio, 1998).

Si tratta di “rinunciare alla sicurezza della compagnia ed essere libero, ma anche solo di fronte ai pericoli dell’ambiente extrafamiliare, oppure rinunciare alla libertà di esplorazione in cambio di una protezione rassicurante, ma anche soffocante” (Liotti, 1987).

Come illustra metaforicamente il mito di Amore e Psiche, il panico interviene, in controtendenza rispetto a quanto si può temere, come una sorta di salvavita, per aiutare a stabilire sintonizzazioni assenti con la propria natura interna e avviare un cammino evolutivo verso una nuova e più equilibrata mediazione, una sintesi, tra bisogni vissuti come drammaticamente  opposti e inconciliabili.

Per questo si rende importante, qualora si percepisca di esser scivolati in un invalidante circolo vizioso di attacchi, rivolgersi al professionista psicologo, trovando la comprensione più completa e le soluzioni più mirate, aderenti alla situazione specifica della persona, individuando e modificando ciò che il panico interviene a segnalare come non adattivo. Un buon intervento tempestivo è fondamentale, contenendo il rischio di rinforzo e cronicizzazione, l’espansione a macchia d’olio del problema, e la demoralizzazione/invalidazione progressiva che ne può conseguire.

Dai circoli viziosi del panico si può uscire, diversamente da eventuali credenze diffuse circa il contrario. C’è tutta una letteratura scientifica di evidenza circa l’efficacia dei trattamenti psicologici al riguardo, laddove la terapia di elezione risulta essere quella di indirizzo cognitivo-comportamentale, che, oltre ad essere parimenti efficace, in fase acuta, ai trattamenti farmacologici, è in grado di garantire tassi di ricaduta molto inferiori ai trattamenti solo farmacologici. Questo perché il farmaco agisce esclusivamente sui meccanismi biologici della reazione ansiosa acuta; il supporto farmacologico può rivelarsi necessario, in trattamento combinato iniziale nei casi di particolare esacerbazione, con conseguenze secondarie molto invalidanti, che vengono a crearsi quando a monte non c’è stato un intervento psicologico tempestivo decisivo, o di fronte a comorbidità particolarmente critiche. Ma in assenza di apprendimenti, chiarimenti e “potenziamenti interni”, conseguibili attraverso il lavoro psicologico, non è sufficiente a risolvere il problema, che sul lungo termine resta anzi mantenuto da questa sorta di stampella esterna.

 

 

 

Settembre, lasciar andare, cambiare

“Lloyd, perché secondo te le foglie diventano gialle d’autunno?”
“Credo che sia per non far provare agli alberi la nostalgia del sole d’estate, sir”
“Ma poi cadono…”
“Non sono loro che cadono, ma gli alberi che le lasciano andare, sir”
“Perchè, Lloyd?”
“Perché gli alberi sono saggi, sir. E sanno che il sole tornerà”
“E con loro anche foglie nuove. Vero, Lloyd?”
“Esattamente, sir.”

Da: Vita con Lloyd. I miei giorni insieme a un maggiordomo immaginario – Simone Tempia

Quando eravamo bambini, o ragazzi, settembre significava fine dei giochi, quantomeno quelli estivi in totale libertà dai banchi di scuola… e corsa agli armamenti per finire i compiti delle vacanze! Ma anche per gli adulti generalmente settembre significa fine delle ferie, dell’amata estate, e rientro al tran tran di studio/lavoro, approssimarsi di giornate sempre più corte, più piovose e fredde, di tristezza metereopatica. Alcuni  salutano l’estate con netto dispiacere, talvolta trovando difficoltà nel ripristino della propria routine, sperimentando tristezza, o ansia, ad esempio per i noti propositi del “se ne parla a settembre” (… che spesso diventa “se ne parla ad anno nuovo” 😉 ). Altri, al contrario, si sentono sollevati e più attivi al finire della spossatezza che possono generare le alte temperature, o, più in generale, percepiscono il mese di settembre come un fermento di nuovi progetti da realizzare, un’occasione di rinnovamento generativo: attivare cambiamenti, prendersi nuova cura di sé, premere il tasto START.

Le vacanze estive hanno un che di quelle natalizie, pur con le dovute correzioni  (ho assistito ad una variante di ferragosto festeggiato in spiaggia con tanto di addobbi natalizi e arrivo notturno di Babbo Natale per i più piccoli…), e il rientro a settembre odora di anno nuovo. La pubblicità di uno stabilimento balneare rammentava che “luglio è sabato, agosto è domenica, settembre è lunedì”; intendendo che intanto la domenica era ancora lunga!

Che siamo più nemici giurati, o più estimatori, del rientro a settembre/lunedì/nuovo anno, il cui denominatore comune può essere il (ri)partire, possiamo cogliere nell’autunno, e nelle variazioni incontrate dalla natura, uno spunto per riflettere sul cambiamento. Gli alberi in particolare, nel loro mutare colori, spogliarsi e ricaricarsi di foglie, fiori, frutti, sono emblema della ciclicità delle stagioni e dei mutamenti, e, a differenza nostra, affrontano variazioni e distacchi senza sofferenza. Il simpatico Lloyd immagina alberi un po’ nostalgici ma saggiamente consapevoli del fatto che la stagione del sole e delle foglie tornerà, e che il lasciar andare le foglie non costituisce una perdita definitiva, totale, ma una fase anzi necessaria alla propria vita e al ritorno delle foglie, nuove. Si tende generalmente ad attribuire una tristezza, un impoverimento, all’albero spoglio, e non magari un alleggerimento, una liberazione necessaria, un qualcosa che approssima all’essenziale, consentendo adattamento (se non si liberasse delle foglie, l’albero in inverno morirebbe). Ci sembra come morto, eppure non è morto, al contrario, sta seguendo il “programma” per vivere e tornare a generare. Tendiamo a confondere le estremità visibili con la linfa vitale, che continua invece a scorrere invisibilmente altrove, dentro.

La natura ha bisogno costante di trasformazione, eppure a noi umani il cambiamento, inteso in senso adattivo-migliorativo, può risultare spesso faticoso, pauroso, o doloroso.  Perché?

Innanzitutto, mentre i cambiamenti biologici sono “auto-programmati”, i cambiamenti psicologici non lo sono, cioè si innescano in un complesso di interazioni di reciproco influenzamento tra individuo e informazioni-eventi ambientali, in cui la mediazione del sistema percettivo, cognitivo, emotivo, rende tutto infinitamente più complesso, diverso da persona a persona, nella stessa persona in circostanze e tempi diversi. In parole povere subentra l’esperienza cosciente individuale, e non esiste nessun orologio/calendario biologico a selezionare esiti, scandire tempi e obiettivi, dare valore e senso alle cose… a dirci cosa è meglio per noi, quando e come. Certamente anche la nostra esperienza corporea, il nostro stato di salute, ci può segnalare che dobbiamo cambiare qualcosa per stare meglio, ma ciò non risparmia il passo interpretativo e decisionale, se accogliere o meno tale informazione, come leggerla, cosa fare.

Inoltre, benché immaginiamo il cambiamento come qualcosa di monolitico, il processo del cambiare avviene a diversi livelli: percettivo, cognitivo, emotivo, comportamentale. Muta il modo in cui vengono configurati e letti il mondo e gli eventi, i significati attribuiti, ciò che si prova, a livello emotivo e somato-sensoriale, i comportamenti. Ognuno di questi livelli può mutare in maniera più o meno profonda, più estesa o circoscritta, o in tempi diversi. A volte attuiamo in concreto un cambiamento ma non abbiamo un vissuto interiore congruente, oppure è cambiato qualcosa nel nostro modo di pensare, però non sentiamo spinta affettiva, motivazionale in quella direzione. Altre volte abbiamo maturato delle intenzioni, ponderate e sentite, ma non riusciamo a compiere le azioni necessarie per materializzare il tutto. E’ possibile e frequente incontrare ambivalenza, contrasto interno, disarmonia tra le parti, e in ogni caso non si tratta di un colpo di bacchetta magica.

Infine (in realtà in primis), l’identità, la coscienza di sé. Il noto di sé, anche quando prevalentemente spiacevole, è a volte più rassicurante e comodo di un miglioramento, per conseguire il quale si devono attraversare fasi di incertezza, di ignoto rispetto al proprio modo di fare-essere-pensarsi fino ad allora conosciuto e masticato – nonché riconosciuto dagli altri, configurando un sistema di ruoli e aspettative – di piccoli lutti, temporanei smarrimenti identitari. Oppure di perdita di alcuni benefici presenti nella condizione precedente al cambiamento, benché nettamente meno incisivi rispetto all’influsso negativo esercitato da ciò che non andava. Certamente “non si cambia se non si è in grado di rimanere se stessi”. Come l’albero attraversa le stagioni e i mutamenti senza per questo morire o diventare un altro albero, così la nostra identità si plasma, sperimenta altro da se stessa, cosa necessaria ad evolvere, ma restando fedele a se stessa, preservando un’integrazione e un senso di continuità. Un senso, unificatore.

Possiamo imparare dall’albero, che a un certo punto lascia andare le foglie per adattarsi all’inverno e tornare a generare foglie, fiori o frutti, a lasciar andare ciò che genera malessere oppure non consente evoluzione, nuova espressione, alla nostra persona. Parti di noi, abitudini, idee, sentimenti, a volte relazioni. Lasciar andare nel senso anche di liberare, slegare, far fluire: non tenere intrappolato, inespresso, qualcosa, che può ostruire il passaggio evolutivo. Lasciar andare a volte perdonando, o perdonandoci. Lasciar andare per capire cosa resta, cosa resiste, cosa è essenziale.  Lasciar andare qualcosa per lasciare noi stessi liberi di andare.

Send a wish upon a star – Bisogni, sogni, desideri

Send a wish upon a star / Do the work and you’ll go far / Send a wish upon a star / Make a map and there you are

Invia un desiderio su una stella / Fai il lavoro e andrai lontano / Invia un desiderio su una stella / Traccia una mappa e lì ci sei tu

Sia – Lullaby

E’ da poco trascorsa la notte tradizionalmente dedicata all’osservazione delle stelle, all’attesa di una scia luminosa di fronte a cui è difficile non sfiorare neanche per un secondo un desiderio da esprimere – dentro se stessi, perché se lo si dice a voce alta non si avvera 🙂 In verità c’è ancora tempo, pare che le Perseidi siano più visibili nelle sere successive al 10 di agosto, in particolare questa sera. E c’è sempre tempo per legare un desiderio alla coda di una stella.

L’etimologia del termine “desiderio” implica non per niente le stelle: “de-sidera” indica la lontananza dalle stelle, o assenza di stelle. Il desiderio nasce da, e poggia su, uno stato di assenza, è un processo che anzi si sostanzia proprio nella distanza tra noi e un qualcosa di desiderato, assente nell’immediato. Diverse credenze e tradizioni popolari spiegano il perché sia uso comune affidare i propri desideri  alle stelle, ma mi piace pensare a una connessione più semplice, ossia che i desideri hanno la bellezza, la fiamma, la danza delle stelle, e orientano il cammino, altrimenti cieco, proprio come le stelle nell’antichità.

Ho sempre avuto la sensazione che si parli più facilmente di bisogni, motivazione, obiettivi, sogni nel cassetto, e sempre troppo poco di desideri. Desiderio è un termine che tende un po’ a impregnarsi di lussurioso, di ciecamente istintuale, ingovernabile, o di sogno nel cassetto, da custodire, ma al contempo tenere ben separato dalla sfera del reale/realizzabile, appunto, nel cassetto. O ancora di puro sogno a occhi aperti, che ha molto di wandering immaginativo, di testa tra le nuvole, e poco di radicato.

Non è un caso che ad oggi desideri, sogni e bisogni, vengano spessi usati come sinonimi, sovrapposti. Il progresso tecnico-scientifico e i mutamenti socioeconomici annessi, la progressiva virtualizzazione, hanno consentito il moltiplicarsi di possibilità, con i benefici/costi dell’accorciamento o annullamento di tempi e spazi, interni oltre che esterni, prima necessari a svolgere sequenze di operazioni organizzate, intellettive e concrete, a maturare strade atte a raggiungere una meta. Di fronte a questo calderone di possibilità “liquide”, a portata di click, aumenta il rischio di smaterializzazione di percorsi, scelte, investimenti, cosicché laddove tutto sembra possibile in tempi rapidi, niente si fa più reale.

Il divario esistente tra bisogno e desiderio si è accorciato al punto che i due tendono a confondersi, o meglio, la logica-cultura del consumo tende a snaturare l’accezione dei bisogni e a determinare un corto circuito del sistema del desiderio, a scapito di entrambi e in favore di meri impulsi. Il consumo non si fonda sul rapporto mezzo-fine annesso al bisogno, né sulla realizzazione dei desideri, bensì offre esperienze vicarie di realtà, identità e relazioni, che includono miti di felicità-gratificazione rapida e semplificata, e che esulano tuttavia dal confronto con la realtà. L’accelerazione generale dei tempi per conseguire qualcosa e l’immediatezza della gratificazione promessa favoriscono gli impulsi, amplificano la componente di pensiero magico e riducono la mediazione di pensiero con la realtà, la capacità di sopportare dilazioni. “La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati” (Benasayag, 2003).

Esistono in realtà radicali differenze tra bisogno e desiderio, così come esistono sfumature tra desiderio e sogno, malgrado il celeberrimo “I sogni son desideri”.

Il bisogno allude a uno stato di mancanza rispetto a qualcosa senza cui si sta male, parla al negativo; è una tensione verso il ripristino di un equilibrio omeostatico, ha carattere di urgenza e viaggia su tempi brevi. Il desiderio parte pure da un’assenza, ma di qualcosa grazie a cui si può stare meglio, parla una lingua migliorativa, e nutre tramite il processo stesso del desiderare, viaggiando su tempi più lunghi.

Il bisogno si soddisfa, è finalizzato a spegnere la tensione.  ll desiderio si realizza, e la tensione verso la meta, che è in avanti, genera un’accensione, e un’azione trasformativa.  Il desiderio è a cavallo tra immaginazione e realtà, è come un terreno incolto di cui pre-vediamo i frutti, che al momento non esistono, se non negli occhi della nostra mente, ma che possiamo coltivare.  Il desiderio è creatività e progettualità, è mappatura.

Benché il sogno, qualora inteso come progetto, possa essere nominato nell’accezione del desiderio, può scivolare tuttavia nella dimensione della fantasia e dell’evasione. Oggi ci imbattiamo spesso in slogan e comunicazioni più o meno esplicite di invito alla realizzazione dei propri sogni nella cantilena del “tutto è possibile, basta che tu lo voglia intensamente”; un tripudio di fantasia di successi e miracolose soluzioni di felicità, che danno l’idea di poter apparire con la sola contrazione muscolare del sognarli, e di cui ci viene proposto il segreto di turno, il cilindro da cui farli uscire. A questo invitante banchetto di incantesimi c’è ben poco posto per la visione dell’impegno, degli investimenti, dei tempi, della capacità di tollerare rischi, imprevisti e frustrazioni, che stanno dietro alla realizzazione di certi scenari; il contenuto del sogno è spesso quello di qualcun altro, e in parallelo si deforma la fenomenologia della felicità e dei sentimenti umani altri che pure sono necessari per sperimentare felicità. Di nuovo, il pensiero magico sollecitato spinge a gettare semi nel vento dell’emozione, o con un poco di sforzo in più nel terreno, tralasciando comunque un aspetto fondamentale: “non si raccoglie ciò che si semina, si raccoglie ciò che si cura”. Gettare il seme che ha in sé l’idea di frutti desiderati è il minimo, mentre il bello viene dopo, e durante, quando il proprio desiderio – il proprio, non l’eco di uno altrui – lo si deve crescere, fornirgli cure, ascoltarlo, come un figlio.

Il desiderio, o il sogno inteso in tale accezione, che non sia quindi esclusiva gita di fantasia, è qualcosa che esce dal cassetto per stendere un ponte di lavoro con la realtà, sulla realtà. E questo lavorare sulla realtà trova perseveranza nel fatto che ciò che lo sostiene ha il fuoco, la danza, il valore orientativo, delle stelle. Valore inteso come qualcosa che dà sentitamente pienezza e significato al vivere, che muove dentro, orientando e animando il movimento fuori. Il desiderio è richiamo, un richiamo più forte e costante del canto delle sirene, quello che consente a Ulisse di trovare una strategia di resistenza a metà tra il tapparsi le orecchie e il restare vittima di una voglia.

I Lestrigoni e i Ciclopi / o la furia di Nettuno non temere, / non sarà questo il genere di incontri / se il pensiero resta alto e un sentimento / fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. (…) Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti? / E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. / Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Costantino Kavafis, Itaca

Riferimenti:

Benasayag, M., Schmit, G., (20o4). Trad. it. L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano.

Siri, G., (2001). La psiche del consumo. Consumatori, desiderio e identità. FrancoAngeli, Milano.

“L’uomo si costruisce sempre una dipendenza nell’ambire alla libertà”

La ricorrenza del 25 aprile è sempre stata per me molto significativa e generatrice di spunti per pensare alla libertà, sia nel contesto degli eventi storici cui rimanda, sia in un’ottica psicologica e sociale, in riferimento all’attualità e alla natura, oggi più poliedrica e complessa, dell’essere liberi, lasciando gli altri liberi di essere.

Il termine “libertà” deriva dal latino “libertas”, che indicava in origine la condizione di uomo libero  in opposizione a quella di schiavitù.  Da notare che il prefisso latino lib- caratterizza termini che esprimono piacere, gradimento (lĭbentěr significa  “volentieri,  con  piacere”; lĭbentĭa, “gioia, piacere”). Per quanto riguarda l’origine greca della parola, “eleutheria”, la sua radice pare essere “eleuthein hopos ero”, ovvero “andare come desidero” (Hannah Arendt, La vita della mente, 1978).

La presenza di una componente semantica inerente al piacere e al desiderio nell’etimologia del termine mi induce ad una prima dimensione, un primo ordine di riflessione sulla libertà, quello relativo alla mediazione tra “Principio di piacere” e “Principio di realtà”, teorizzata da Sigmund Freud. Secondo Freud, “la libertà non è un beneficio della cultura: essa era più grande prima di qualsiasi cultura, e ha subìto delle restrizioni lungo l’evolversi della civiltà” (Il disagio della civilità, 1930).

La civiltà è resa possibile dal “Principio di realtà”, quale complesso di norme culturali, morali, civili, sociali, interiorizzato dall’individuo, che regola, modera, il “Principio di piacere”, ossia la tensione verso la soddisfazione immediata di istinti e pulsioni. Si parla quindi di un giocoforza tra la ricerca di gratificazione dei bisogni individuali e le esigenze del vivere in una collettività civilizzata, tra gli altri e con gli altri. Quegli altri di cui pure abbiamo bisogno, in quanto animali sociali sin dalle origini, e attualmente guidati tanto da bisogni di autorealizzazione, quanto da bisogni di appartenenza, di stima, di appartenenza e di sicurezza (modello della piramide dei bisogni di Abraham Maslow, 1954).

Un secondo punto derivante è dunque il rapporto tra individualità e relazionalità. La parabola di Arthur Schopenhauer “Il dilemma del porcospino” (Parerga e parapolimena, 1885) illustra come ogni uomo incontri e debba confrontarsi con le “spine” dell’altro, proprio nel tentativo di soddisfare il suo bisogno dell’altro. In una notte d’inverno alcuni porcospini alternano avvicinamento e distanziamento tra di loro, mossi ora dal bisogno di riscaldarsi, ora dal dolore generato dalle spine reciproche. La “moderata distanza reciproca” che raggiungono, quale via risolutiva di uscita dal dilemma, appare abbastanza semplice nel caso specifico, immaginandola come questione per lo più spaziale, ma si complessifica nel contesto del rapporto con un “altro” umano, che costituisce tutto un altro “mondo possibile” rispetto al proprio, di caratteristiche, significati, linguaggi, esigenze. L’incontro tra due o più persone mi piace pensarlo come incontro di “mondi possibili”, espressione e concetto che amo prendere in prestito dallo psicologo Jerome Bruner. E questo dilemma si sviscera e si traduce nella necessità di gestire e integrare, in una miriade di situazioni quotidiane che si pongono come microdilemmi, il bisogno di affermazione individuale e il bisogno di relazione; il bisogno di autopreservazione, dal dolore e dalle minacce alla nostra integrità psicoaffettiva, e il bisogno di cure e di sicurezza psicologica offerte dall’altro, e da offrire all’altro. L’altro può darci calore, ma può anche ferirci.

Si può credere di investire tutto sul polo dell’individualità, attuando stili relazionali e comunicativi “aggressivi”, che tendono all’imposizione delle proprie idee e esigenze, al prevaricare l’altro, oppure rinunciando alle relazioni, evitandole. O si può pensare di annullare la propria individualità centrando tutto sul polo dell’altro, assumendo disposizioni passive che, in un modo o nell’altro, possono comportare comunque un evitamento, una rinuncia alle relazioni, o una non autenticità delle stesse. Una “moderata soluzione reciproca” può consistere nell’assertività, la capacità di esprimere in modo chiaro e congruente le proprie opinioni, emozioni, esigenze, rispettando al contempo quelle altrui, senza prevaricare e senza essere prevaricati: essere presenti a se stessi lasciando essere gli altri.   Tale capacità presuppone altre abilità, quali quelle di lettura della propria mente, di riconoscimento dei propri stati psichici e dei propri bisogni, di lettura empatica della mente dell’altro, e di differenziazione tra la propria mente e quella altrui; abilità definite di “metacognizione”. Presuppone il sapersi riconoscere e concedere, per primi, la libertà di essere chi si è, lasciando l’altro libero di essere chi è, e di esprimerlo. Il saper lasciar andare, quando non c’è compatibilità con l’altro. Il saper stare con se stessi, pur non piacendo necessariamente a tutti gli altri (e, a volte, nemmeno a se stessi) e senza pretendere che l’altro si plasmi a nostro piacimento, al di fuori delle sue libere valutazioni e volontà.

La libertà di essere non è un fatto isolato e definitivo, non può realizzarsi in un “mors tua, vita mea”; è un processo. Si muove su un continuum tra due capi che sono “io” e “l’altro da me”, poiché l’identità stessa esiste e si ridiscute costantemente nella dialettica con l’alterità, con gli oggetti e gli eventi dell’ambiente esterno e con gli altri relazionali.

Libertà è costruire la propria autonomia ed emancipazione materiale e morale, identitaria, affettiva. Richiede autostima, senso di autoefficacia e agentività: volersi bene, avere fiducia nelle proprie capacità di conseguire obiettivi e di affinare strumenti per conseguirli, di incidere sulla realtà e di essere al timone della propria vita.

Ma è anche sapersi riconoscere fragili, vulnerabili, portatori di bisogni socioaffettivi. Saper riconoscere il limite, nel senso dei limiti e imperfezioni di ognuno, e del limite dato dalla condizione stessa dell’esistenza umana. Saper condividere o anche cedere, il timone.

Mi vengono in mente due film. Uno, “Film blu” di Krzysztof Kieślowski (1993), appartenente a una trilogia (Film blu, Film bianco, Film rosso) i cui film sono ispirati ai colori della bandiera francese, rispettivamente associati ai temi della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza. Il “Film blu”, che parla appunto della libertà, narra la storia di una donna che ha appena perso il marito e la figlia di 7 anni in un incidente, e che, nel vissuto del dolore di un lutto di tale portata, inizia ad estraniarsi e ad indurirsi nei confronti della vita e di tutti i rapporti umani, evitando di investire nuovamente in qualcosa o qualcuno per preservarsi da eventuali altre sofferenze.

“Ero felice, mamma. Li amavo e loro mi amavano. Non mi ribellavo… E sarebbe stato così per tutta la vita. Ma è successo quel che è successo, e adesso non ci sono più. (…) Ho capito che, se è successo questo, adesso farò soltanto quello che voglio. Niente. Non voglio più né proprietà, né ricordi, amici, amore o legami. Sono tutte trappole.”

Con il tempo a lei necessario, e attraverso il supporto di altri legami, si accorgerà di quanto questa sorta di “liberazione coatta” dagli affetti, che diviene rinuncia alla vita, la stia rendendo prigioniera, a scanso dei rischi che naturalmente vivere e amare, comporta.

L’altro film, “La stoffa dei sogni”, di Gianfranco Cabiddu (2016), lo chiamo in causa per una citazione, che trovo significativa in generale ed esemplificativa per la storia e il concetto appena espressi:

“l’uomo si costruisce sempre una dipendenza nell’ambire alla libertà”. 

Ho interpretato questa frase nel senso, più controproducente, di costruirsi prigionie allo scopo ideale di liberarsi, laddove una tale aspirazione può celare una rinuncia, che a sua volta sottende una paura. Ma anche nel senso del non poter del tutto fare a meno dell’altro, già solo perché l’altro ci consente di (ri)conoscerci; e non poter fare a meno di regole, nel gioco relazionale e oltre, per la gestione delle angosce connesse al disordine, all’incertezza, all’ignoto, a ciò che è incontrollabile o inspiegabile. Per il bisogno di significare. Queste regole possono essere più o meno funzionali e benefiche, e sono sempre le nostre, costruite, passibili di essere riviste, adattate, ri-significate, co-costruite. Almeno al di fuori di un regime di cieca obbedienza, dunque di schiavitù.

La libertà è, inoltre, essere disposti ad assumersi responsabilità, non nell’accezione moralistico-punitiva di “colpa”, ma in quella più immediata di essere artefici, di esercitare consapevolmente una volontà, disponibili a correre dei rischi e ad affrontare conseguenze. Il sociologo Zygmunt Bauman, sosteneva che “Il destino di un essere libero è pieno di antinomie non facili da valutare e da cui è ancor più difficile districarsi. Consideriamo (…) la pietosa condizione della riconquistata responsabilità, che naviga pericolosamente tra gli scogli dell’indifferenza e della coercizione” (Modernità liquida, 2000).

Proprio la storia del radicamento del regime nazifascista fornisce un drammatico esempio di due pericolose derive, quella della deresponsabilizzazione, dell’accettazione passiva, del non vedere e non fare, e quella, massimamente aggressiva, della totale identificazione nel fanatismo dittatoriale. Tutt’oggi si assiste al proliferare, complici l’effetto di polarizzazione dei media ed altri complessi fattori socioeconomici e psicologici, di due opposti atteggiamenti: da un lato disillusione, disinvestimento, disimpegno, cinismo e tacita rassegnazione, dall’altro focolai di idee fanatico-totalitarie, sostenuti, tra le varie, dall’esigenza di identificare “capri espiatori” (concetto formulato dall’antropologo René Girard) tramite i quali esimersi dalla propria fetta di responsabilità individuale. In verità scegliamo sempre, anche quando non scegliamo. Come affermava Paul Watzlawick, “non si può non comunicare”. Anche il silenzio, l’omissione di azioni, è comunicazione ed è azione.

Mi viene a questo punto alla mente Burrhus F. Skinner, esponente di spicco della corrente comportamentista in psicologia, i cui contributi, in parte giunti sino ad oggi per l’indiscutibile importanza delle derivazioni applicative, non furono tuttavia esenti da critiche, rivolte alla frangia più estrema dell’ambientalismo e dell’assunto di fondo per cui qualsiasi risposta comportamentale messa in atto è il frutto di rinforzi e di condizionamenti socioambientali. Nell’opera “Oltre la libertà e la dignità” (1972), Skinner ipotizza, quale unica soluzione per la sopravvivenza della specie umana, il controllo sistematico del comportamento per mezzo della tecnica comportamentista, mettendo da parte le idee di libertà individuale, responsabilità e dignità.

Questo mi porta a dire una cosa, in conclusione: è vero che lo sviluppo dell’uomo risente in parte, necessariamente, di svariati condizionamenti ambientali, ed è vero che agire in relativa libertà, con responsabilità e dignità, è cosa complessa, non sempre realizzabile e sempre perfettibile. Ma credo si debba prestare attenzione a non confondere la libertà con l’onnipotenza, i limiti della libertà con i limiti e le caratteristiche più intime dell’essere uomini; a non rendere la complessità un accomodante motivo per vivere dietro il dito di qualcun altro, puntare perennemente il dito contro qualcun altro, rinunciare a prendersi per mano o a camminare da soli in quella zona che abbisogna dello stare con noi stessi, per poter stare autenticamente con gli altri.

“Ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia a ogni speranza, tra i piaceri dell’anarchia e quelli dell’ordine, tra il Titano e l’Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi, l’armonia.”

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano

Stress: se lo conosci ti proteggi

Il concetto di “stress” impera ormai nelle nostre vite quotidiane, rivelandosi forse il più abusato, laddove la frequenza con cui se ne parla resta comunque inferiore alla conoscenza qualitativa del fenomeno attualmente diffusa. Ciò fa sì che questo venga molto spesso chiamato in causa, anche ragionevolmente, ma senza chiarezza circa i reali meccanismi di funzionamento negli stati di benessere/malessere psicofisico. E che circolino credenze che suonano più o meno così: “quando i medici non sanno individuare la causa di ciò di cui soffri, ti dicono che è lo stress”. Quest’ultimo può arrivare dunque a essere percepito come una sorta di “jolly” adoperato in assenza di altre spiegazioni patogenetiche. Oppure come una sorta di elemento di “fede”, qualcosa in cui credere o meno; o, in generale, può restare una grande incognita. Sottolineando l’importanza di una relazione di fiducia e di compliance con il medico curante,  diviene oltremodo importante aumentare la conoscenza della natura e dei meccanismi d’azione del fenomeno.

Letteralmente stress significa “sforzo, pressione”. Il termine deriva dalla radice indoeuropea “str”, associata all’esercizio di pressione (greco strangalizein, “strangolare”; latino strigere, “stringere”) e si ritiene che nei tempi moderni sia stato mutuato dal contesto delle prove di laboratorio a cui sono sottoposti dei materiali allo scopo di determinarne la capacità di resistenza strutturale. In questo senso lo stress è la pressione o il carico esercitato sul materiale.

In biologia lo stress è inteso come tutto quello che può alterare l’omeostasi, ossia la condizione di equilibrio delle funzioni fisiologiche dell’organismo (ad esempio la temperatura corporea, il battito cardiaco, la concentrazione degli zuccheri nel sangue, ecc.), per preservare la quale l’organismo, in presenza di stressors, innesca un repertorio di risposte adattive, fisiologiche e comportamentali, atte appunto a ristabilirla. Il caldo può essere un esempio di stressor fisico: ai fini del controllo omeostatico il corpo innesca dei meccanismi di dispersione del calore, ad esempio attraverso la vasodilatazione.

Il patologo sperimentale Hans Selye è ritenuto il padre della ricerca sullo stress. Nel corso del ‘900 Selye si è dedicato allo studio dell’adattamento dell’organismo a diverse tipologie di agenti stressanti, fisici e psichici, dando avvio alla concettualizzazione dello “stress psicologico” e delineando la teoria ancora attuale sul funzionamento della risposta di stress, definita General Adaptation Syndrome (G.A.S.) ovvero “Sindrome Generale di Adattamento”. Selye scoprì che la risposta fisiologica allo stress può innescarsi sia di fronte a uno stressor fisico (ad esempio un bagno in acqua gelida), sia di fronte a uno stressor psicologico, emotivo. La sindrome di adattamento è una risposta innata adattiva, finalizzata a proteggere l’omeostasi, dunque l’organismo, di fronte a elementi avversi, esterni o interni, fisici o psichici. Essa attiva delle modificazioni neuroendocrine che esercitano effetti su:

  • Funzioni del sistema nervoso centrale (aumento dell’attivazione psicofisiologica, di allerta, vigilanza, cognizione, attenzione…).
  • Funzioni periferiche, con conseguenze su svariati sistemi interni (cardiovascolare, respiratorio, gastrointestinale, immunitario, incremento del metabolismo…).

L’omeostasi basale sana è definita anche eustasi, mentre un adattamento omeostatico insufficiente, eccessivo o prolungato, genera quello che viene definito carico allostatico. Sia l’ipofunzionamento sia l’iperfunzionamento dei sistemi omeostatici possono generare questo carico e danneggiare l’organismo a breve e lungo termine.

Selye illustrò 3 fasi nella Sindrome Generale di Adattamento: quella di “Allarme”, in cui si innescano le reazioni psicofisiologiche descritte; quella di “Resistenza”, in cui lo stressor perdura e l’organismo tenta appunto di resistere, mantenendo attivati i soliti processi; quella di “Esaurimento”, in cui l’organismo esaurisce le capacità di fronteggiamento, sottoponendo la persona al rischio di svariate patologie internistiche o psichiatriche.

Lo stress non può prescindere dal rapporto tra caratteristiche degli stressors (tipologia, intensità, durata nel tempo) e caratteristiche del soggetto che vi risponde, tra la natura delle richieste ambientali e le capacità del soggetto di farvi fronte. Quando questo rapporto è proporzionato, e l’individuo percepisce un controllo, una capacità di fronteggiare tali richieste, si parla di “eustress”, la versione adattiva e benefica dello stress, che non può e non deve essere evitata, in quanto funzionale alla sopravvivenza come alla qualità della vita. Quando invece le richieste superano le capacità adattive della persona, e lo stress acuto si perpetua nel tempo, trasformandosi in stress cronico, si parla di “distress”, lo stress patogeno!

Quest’ultimo è implicato in svariati disturbi e malattie infiammatorie croniche: patologie cardiovascolari, gastrointestinali, endocrine, metaboliche, autoimmuni, dermatologiche, tiroidee, alcune forme di cefalea e di dolore muscolare, disturbi d’ansia e depressivi, disfunzioni cognitive ed esecutive, ecc… Sottopone al rischio di altrettante patologie attraverso l’effetto immunosoppressivo. Lo sviluppo e la gravità della malattia dipende dall’interazione dello stress con fattori di predisposizione genetica, di vulnerabilità costituzionale, fattori avversi o protettivi, nonché dall’esposizione precoce, in periodi critici dello sviluppo, a esperienze stressanti; ma trattasi appunto di un elemento concausale, precipitante, o di un possibile fattore di mantenimento.

Gli stressors vengono valutati cognitivamente, ossia la persona attribuisce un significato allo stimolo stressogeno, in base a svariati aspetti, e questo ne orienta l’attivazione emozionale, connessa all’attivazione fisiologica, e le risposte comportamentali di fronteggiamento. Ciò implica che 1. C’è sempre una mediazione di pensiero, legata alla propria esperienza, ad aspetti personologici o ambientali contingenti. 2. Ciò che è vissuto come stressogeno da qualcuno può non esserlo per qualcun altro, e viceversa.

Si definiscono “stili di coping” (da to cope = far fronte) le modalità di risposta della persona di fronte agli stressors, ai carichi percepiti: stili adeguati di coping alimentano la “resilienza”, ossia la capacità della persona di resistere e fronteggiare le richieste ambientali, preservandosi dall’esaurimento, e di riorganizzare positivamente la propria vita. Il coping permette alla persona non solo di non farsi “schiacciare”, prevenendo malessere psicofisico, ma anche di elaborare nuove configurazioni di significato rispetto agli eventi, nuove consapevolezze e abilità, a supporto dell’autostima e del senso di autoefficacia; di predisporre condizioni di vita protettive, alternative a condizioni di distress, di rischio per la salute psicologica e fisica. Esistono inoltre delle tecniche, di alcune delle quali ho parlato in questo articolo www.leviedellapsiche.it/gli-effetti-degli-interventi-mente-corpo-sul-cervello-sulla-salute/, e in generale varie forme di intervento psicologico, con evidenza scientifica di efficacia in termini sia di prevenzione sia di cura delle patologie corporee stress-correlate.

I ritmi e alcune caratteristiche della società odierna hanno portato all’aumento di fattori di potenziale distress, fisico e psicologico, tuttavia, è di fondamentale importanza ricordare che, “tirando la corda”, la nostra unità mentecorpo potrà spezzarsi. E che:

 “La radice di ogni salute è nella mente. Il suo tronco è l’emozione. I rami e le foglie sono il corpo. Il fiore della salute sboccia quando tutte le parti lavorano insieme.”

Felicità e ombre di felicità: dalla trappola alla paura di essere felici

Lunedì scorso sul web si celebrava, pur in modo del tutto informale, la giornata della felicità.

Dare una definizione della felicità, così come di altri stati d’animo, è certamente impossibile, poiché tutto dipende dai personali significati che ognuno le attribuisce, dalle intime esperienze che ne ha avuto e dalle credenze maturate, soggette a modifiche nel tempo, al riguardo. Della felicità si scrive e si parla da tempo immemore, e le sue concezioni risentono chiaramente del sostrato storico e culturale. Ad oggi, con l’aumentare dei gradi di libertà di espressione, di ricerca di un proprio benessere e di soddisfazione di bisogni relazionali, identitari e in generale esistenziali, più raffinati, si sono moltiplicati anche i concetti possibilmente annessi, e talvolta sovrapposti, alla felicità. Nell’ultimo secolo abbiamo assistito a mutamenti socioeconomici e culturali radicali, che hanno trasformato anche i valori, le modalità di essere, di sentire e di desiderare, in un panorama di nuova attenzione per la soggettività. Nei dintorni della felicità oggi troviamo termini come benessere, soddisfazione, gratificazione, raggiungimento di scopi. Alle volte la gratificazione di un desiderio o il raggiungimento di uno scopo giungono a coincidere nella personale concezione della felicità, cioè si pensa che in assenza di un dato ottenimento non possiamo provare felicità. Tuttavia gli scopi e i desideri, benché componenti molto importanti nella dimensione motivazionale e progettuale dell’essere umano, possono mutare o “saturarsi”, ossia, una volta raggiunti, aprire le porte ad altri scopi/desideri, in una sorta di gioco al rialzo della felicità. E resta un fenomeno diffuso quello di aver raggiunto svariati traguardi, sentirsi pure soddisfatti, ma non necessariamente felici.

Un libro molto interessante scritto dallo psicoterapeuta Russ Harris, uno dei pionieri della Acceptance and Commitment Therapy (ACT – Terapia di Accettazione e Impegno), intitolato “La trappola della felicità”, parla delle insidie insite nelle prescrizioni sociali e nei “miti” odierni della felicità, nelle aspettative che questi creano, che paradossalmente allontanano dal sentimento della felicità, intrappolandoci nel “confezionamento” della stessa e nell’evitamento di altri umani sentimenti, e originano spesso svariate forme di sofferenza.

“C’è qualcosa di tremendamente ironico nella felicità. In inglese, questa parola deriva da una radice che significa «per caso» o «un avvenimento», che dal lato positivo denota un senso di novità, meraviglia e apprezzamento per gli avvenimenti casuali. La felicità non è soltanto questione di sentirsi bene. Se così fosse, le persone che fanno uso di droghe sarebbero le più felici al mondo. In realtà la ricerca dello star bene può essere un’impresa molto infelice (…) Come una farfalla immobilizzata da uno spillo su un tavolo, la felicità muore, a meno che non venga trattenuta con delicatezza.”

L’autore descrive quattro miti odierni sulla felicità, che operano ognuno una distorsione della realtà delle cose:

  • la felicità è la condizione naturale di tutti gli esseri umani ⇒ La convinzione che la felicità sia qualcosa tipo di “geneticamente determinato” o di infuso, e che tutti, o la gran parte delle persone eccetto noi, siano idealmente felici; per cui se non la proviamo siamo in qualche modo “difettati”, “mancanti” o “disadattati”.
  • Se non sei felice, hai qualcosa che non va ⇒ Il dolore, o stati dissimili dalla felicità, soprattutto nella società occidentale attuale, sono rigettati ed evitati, mentre si svendono a tutte le ore soluzioni preconfezionate per essere felici.
  • Per avere una vita migliore dobbiamo sbarazzarci dei  sentimenti negativi ⇒ E altre pillole di ottimismo low cost, la filosofia Pollyanna, la famiglia del Mulino Bianco ecc.
  • Dovresti essere capace di controllare ciò che pensi e che provi ⇒ Si collega al mito precedente: certamente abbiamo l’opportunità di riconoscere e focalizzare “il bicchiere mezzo pieno” delle cose, ciò non significa che il lato mezzo vuoto vada annullato, o che sia necessariamente negativo o inutile riconoscerlo. Se non altro perché il bicchiere ha bisogno del vuoto per riempirsi, così come la felicità si nutre anche degli altri sentimenti umani, anche se apparentemente non sembra.

D’altro canto, come accenna Charlie Brown, la felicità può implicare degli effetti collaterali! Ovvero, può essere temuta, per svariatissime motivazioni, tra cui quella di non perdere certi vantaggi del rimanere infelici.

Lo psicologo Paul Watzlawick ha scritto un libro intitolato “Istruzioni per rendersi infelici”, molto ironico e intelligente, in cui affronta vari meccanismi attraverso cui a volte ci rendiamo, consapevolmente o meno, complici della nostra infelicità. Ad esempio, ci si può rendere infelici rimanendo oltremodo attaccati al passato, in quanto “un ulteriore vantaggio della fedeltà al passato consiste nel fatto che in questo modo non rimane il tempo di dedicarsi al presente. Rivolgendosi al presente, potrebbe a ogni istante succedere che la visuale si sposti accidentalmente di 90 o di 180 gradi, giungendo in tal modo alla constatazione che il presente ha da offrire non solo ulteriore infelicità, bensì anche occasionale non-infelicità; per non parlare poi delle molte specie di novità che potrebbero scuotere quel pessimismo a cui ci siamo votati.”

Restare INfelice, benché non proprio deciso a tavolino, o rinunciare anche solo a pensare possibili terreni fertili per la felicità, potrebbe alle volte assumere diversi vantaggi, quali ad esempio: non rischiare di soffrire nell’eventualità di perdere qualcosa che ci renderebbe felici; non rischiare di perdere il controllo razionale e quindi di situarsi in una condizione di vulnerabilità, seguendo un po’ la credenza per cui l’emozione ci rende fragili e la ragione, forti; non apparire “ingenui sentimentalisti” o “superficiali”, altra ipotetica protezione dal dolore (altri aneddoti culturali sulla “retorica dei sentimenti”, in parte connessa al punto precedente, qualcosa tipo “solo i duri sopravvivono!… in un mondo di squali”); attribuire a qualcosa o qualcuno l’unica ragione della nostra infelicità, evitando di leggere dentro se stessi e capire come contribuire a modificare la situazione.

Un altro motivo di distanziamento dalla felicità può consistere nel sentirsi immeritevoli di provarla: questo sentimento può poggiare su diversi fattori, e su sofferenze di natura anche profonda, che possono implicare un abnorme senso del dovere e di responsabilità, un forte senso di colpa, un senso di indegnità e appunto di immeritevolezza.

Determinante può essere anche l’influsso di credenze religiose o morali inerenti il valore elevatore del sacrificio e una valutazione del piacere come qualcosa di “impuro”, peccaminoso o comunque indesiderabile, oppure come qualcosa di legato alla bassezza degli istinti che contrasta  con la superiorità dell’anima.

Volendo procedere, le questioni possibilmente coinvolte si complessificano; per il momento è sufficiente concludere invitando a distinguere la felicità da quelle che sono le sue ombre, ovvero proiezioni sul muro, dalle trappole e dai suoi miti a diffidare delle imitazioni della felicità. Ad accogliere i propri sentimenti in tutte le loro sfaccettature, facendo attenzione, però, alle autoistruzioni per rendersi infelici. Del resto, “la felicità è come un treno senza orario: ne passa uno ogni tanto. Non puoi prevederne l’arrivo, né sapere quando ripartirà. Il tuo compito è andare in stazione.” P.C.

Gli effetti degli interventi mente-corpo sul cervello e sulla salute

George Engel, psichiatra statunitense, è noto come il padre del modello biopsicosociale della salute e della malattia (1977), il quale ha rivoluzionato il panorama culturale e scientifico rispetto a questi temi. Secondo tale modello, la comprensione e l’intervento adeguati nella malattia e nella sofferenza non possono prescindere dalla considerazione delle interazioni reciproche e circolari tra fattori biologici, psicologici e sociali. La malattia non è più ritenuta, come nell’ottica biomedica di un secolo fa, una semplice deviazione di valori biologici dalla norma, bensì la risultante di questi tre ordini di variabili, che interagiscono in maniera complessa. Benché nella popolazione generale ci sia ancora scarsa conoscenza dei meccanismi attraverso cui la sfera psichica e sociale influenza il corpo, le neuroscienze, così come altre aree di ricerca quali quella della psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), accumulano sempre più evidenze da un lato inerenti ai correlati cerebrali, neurofisiologici, neuroendocrini, metabolici degli stati mentali (fattori cognitivi, emotivi e psicosociali) e dello stress psicologico; dall’altro, circa l’efficacia di interventi psicologici e, in questo caso psicocorporei, sul benessere e la salute, in termini sia di prevenzione delle malattie, sia di intervento a patologia conclamata. Tutto ciò significa che di psiche e relazioni ci si può ammalare, anche nel corpo, e tramite le stesse si può prevenire o guarire; nello specifico di svariate patologie esiste una letteratura scientifica che spiega i meccanismi neurofisiologici, causali o concausali rispetto alla malattia, generati da stati di malessere psicologico.

Il concetto di “stress” è forse quello attualmente più abusato e spesso sottovalutato: di cosa sia lo stress , degli effetti che provoca nel corpo e del ruolo che gioca in svariate malattie, parleremo più approfonditamente in un altro articolo. Per il momento mi preme parlare degli effetti che un complesso di tecniche di intervento, definite di “mente-corpo”, sembrano generare sul nostro cervello e sul nostro corpo, impattando positivamente e significativamente sulla salute.

Una recentissima rassegna scientifica illustra gli effetti di tecniche, quali ad esempio il rilassamento muscolare progressivo, tecniche di modulazione del respiro, tecniche di immaginazione guidata, la mindfulness, a livello cerebrale (in termini funzionali e morfologici), neuroendocrinologico, immunitario e di espressione genica.

  • Queste determinano un aumento dell’attivazione del sistema nervoso parasimpatico e un decremento dell’attività del sistema nervoso  simpatico, la cui attivazione prolungata è connessa a stati di ansia e stress. Riducono la produzione di citochine infiammatorie e aumentano la sensibilità al cortisolo, l’ormone che aiuta a fronteggiare lo stress. Tutto ciò genera una migliore attività cardiaca, una migliore modulazione delle funzioni immunitarie, della motilità intestinale e dell’attività del microbiota intestinale (il complesso di microrganismi che vive nel nostro intestino e gioca un ruolo determinante nella difesa immunitaria). Il sistema immunitario e il microbiota intestinale, a loro volta, retroagiscono sul cervello influenzando il tono dell’umore. L’attività muscolare e il tono cardiovascolare derivanti dall’esercizio di alcune tecniche, hanno effetti sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, principale modulatore della risposta allo stress, sull’equilibrio tra sistema simpatico e parasimpatico, sulla funzione immunitaria e sull’umore.
  • Le tecniche di intervento mente-corpo sembrano influenzare positivamente l’espressione genica di cellule immunitarie collegate alla riduzione dello stress ossidativo, inibendo il danneggiamento cellulare dovuto allo stress cronico. Contrastano l’invecchiamento cellulare, rallentando l’accorciamento dei telomeri, piccole porzioni di DNA che hanno un ruolo nel determinare la durata della vita di ciascuna cellula, e regolando fattori ormonali che ne promuovono il mantenimento del tempo.
  • Studi condotti tramite elettroencefalogramma sugli effetti della mindfulness e altre forme di meditazione rivelano un aumento di attività cerebrale connessa a cognizione, attenzione,  memoria, apprendimento e processi affettivi. Queste sembrano  stimolare la plasticità corticale e innescare cambiamenti nelle reti neurali associate alla ristrutturazione cognitiva. Altri studi, attraverso tecniche di neuroimaging, riportano che gli interventi mente-corpo in generale determinano l’attivazione di aree cerebrali quali: la corteccia orbitofrontale e la corteccia cingolata anteriore (associate alla regolazione emozionale), l’insula (consapevolezza del proprio corpo ed emozioni), l’amigdala e l’ippocampo (apprendimento e memoria), la corteccia somatosensoriale. E altre regioni connesse al senso di sé, all’immaginazione, all’attenzione sostenuta, ecc…

Gli effetti benefici di questa tipologia di interventi sulla salute e sul benessere psicofisico sono in conclusione molto numerosi. Malgrado il pregiudizio culturale ancora diffuso e resistente circa una frattura netta tra mente e corpo, la scienza ha prodotto, e continua a produrre, una mole sempre più significativa di letteratura che testimonia la complessa interazione circolare tra processi psichici e somatici. Tanto che non è più pensabile prendersi cura della propria salute fisica tagliando fuori la salute psicologica e relazionale.

La psicologia, spesso pensata come disciplina interveniente soltanto sul disagio psichico conclamato e circoscritto, o come “ultima spiaggia” quando gli interventi medici non sembrano sortire risultati in definitiva, offre invece soluzioni sia preventive-protettive, di promozione di benessere che non è semplice relax, ma ha dei correlati neurofisiologici di difesa del proprio corpo dalla malattia, e si declina anche in un migliore rapporto con la realtà e fronteggiamento delle difficoltà; sia di intervento, in sinergia con la professione medica, a malattia conclamata.

Riferimento:

Muehsam, D., Lutgendorf, S., Mills, P.J., Rickhi, B., Chevalier, G., Bat, N., Chopra, D., Gurfein, B. (2017). The embodied mind: A review on functional genomic and neurological correlates of mind-body therapies. Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 73, 165-181

Cara Ansia, ti scrivo. E ti leggo

Se l’ansia avesse il dono della parola, e potesse scrivere una lettera di presentazione, immagino che potrebbe suonare più o meno così:

Ciao, mi chiamo Ansia, e sono un’emozione. Sono nata e cresciuta nella mente un po’ più evoluta dell’uomo, la mia famiglia di origine è quella della Paura. Sono una dipendente dell’SNS (Sistema Nervoso Simpatico) e lavoro nel tuo corpo, tra i tuoi pensieri e le tue immagini. Il mio  è un mestiere molto variegato: posso farti accelerare il battito cardiaco, aumentare la sudorazione, posso tendere i tuoi muscoli, sollecitare il tuo stomaco e intestino… Di base lavoro come consulente e motivatrice: ti metto in guardia da ipotetici pericoli e, se collabori con me, posso migliorare le tue prestazioni e farti apprezzare i lati migliori dell’Adrenalina, il mio braccio destro. Nel tempo libero mi diverto a farti delle candid camera, tipo Scherzi a parte. Ti faccio spaventare, ma in realtà è tutta finzione, e spesso lo scopri per tempo!

…Lo so, altre volte ti faccio agitare moltissimo, e per questo inizi ad avere paura di me e a credere che gli scherzi che ti faccio siano la realtà. Inizi ad odiarmi, a temermi, o a vergognarti di me, a orchestrare pensieri e azioni per evitarmi. Queste tue strategie, però, funzionano come delle pompe di gonfiaggio e, se prima ero un palloncino, dopo divento una mongolfiera. E tu ti spaventi ancora di più, pur senza volerlo! Ma se ti rifiuti di conoscermi e di fare due chiacchiere con me, come posso mostrarti che in verità sono innocua, una ragazza della porta accanto, così, Ansia e sapone; che insieme possiamo fare anche cose buone, e che in fondo voglio solo il tuo bene?

Firmato:    Ansia

Bene, la nostra “amica” Ansia è stata abbastanza sincera. E’ una parente stretta della paura, ma con una sua caratteristica distintiva: mentre la paura è un’emozione primordiale che si attiva di fronte a pericoli reali immediati, l’ansia si innesca per quelle che sono percepite come minacce future ipotetiche. Si è inoltre “raffinata” di pari passo allo sviluppo della neocorteccia, la parte più evoluta del nostro cervello, quella che, tra le varie cose, ci consente di rappresentarci mentalmente la realtà, dunque anche di prefigurarla. La differenza tra paura e ansia è semplice: se subisco una rapina in strada sperimento paura, se invece esco di casa temendo di subire una rapina, sperimento ansia. L’evento-rapina ha un relativo margine di probabilità di accadimento, ma non si verifica realmente nel momento in cui vivo la preoccupazione, e potrebbe non verificarsi mai. Per questo l’ansia è spesso definita anche come “paura senza oggetto”. Tuttavia, essa è in grado di allarmarci e attivarci quanto la paura, dal punto di vista fisiologico (il cervello mobilita gli organi interni, i muscoli, il metabolismo, i sistemi sensoriali, come se l’organismo avesse davvero di fronte un pericolo, per dotarlo delle energie sufficienti ad attaccare o fuggire) e psichico.

L’ansia produce nella nostra mente delle vere e proprie candid camera, dei filmati in cui avvengono cose temibili, ma che in quel momento appartengono solo alla finzione. A volte ci rendiamo conto dell’ (auto)inganno, valutiamo che, per quanto lo scenario sia verosimile, non è necessariamente vero. Altre volte, invece, crediamo che quel filmato sia davvero una realtà che a breve avverrà, e questa è una nostra scelta di pensiero. Se si deve dare un esame e si teme la bocciatura, l’ansia ci mostra il filmato di una verosimile bocciatura. Da amica, viene a dirci che “potremmo bocciare”, come incentivo per affrontare al meglio un compito, ma non che “bocceremo sicuramente”, e che quindi qualsiasi impegno sarà vano.

Se “collaboriamo” con essa, preparandoci per superare l’esame, avremo trovato un’amica, poiché ci darà la giusta attivazione per la performance (come spiegato dalla “Legge di Yerkes-Dodson”: livelli intermedi di attivazione psicofisiologica determinano le prestazioni migliori, mentre un’attivazione troppo scarsa o eccessiva è di ostacolo). Se invece vedremo l’ansia come un ospite sgradito, portatore di cattive notizie o di uno stato indesiderabile, incontreremo un’altra serie di nemici che la “gonfieranno” e, dal palloncino che era, diventerà un’enorme mongolfiera. Due di questi nemici sono:

  • La paura o la vergogna per la propria ansia. E’ ancora diffuso un pregiudizio culturale circa la suddivisione ragione-emozione (che invece operano in concerto) e la “forza” della ragione Vs. la “debolezza” delle emozioni, soprattutto alcune. Ancor più in una società “performante” come la nostra attuale, richiedente elevate prestazioni, funzionalità, competitività, l’ansia può essere vista come un indice di disfunzione, di debolezza, di “perdente”; dunque, fonte di imbarazzo e vergogna, o timore di “non farcela”. In realtà si tratta di una fisiologica emozione con una precisa funzione adattiva, al pari delle altre emozioni, che non fa di noi né dei perdenti – anzi, può essere un prezioso stimolo per migliorarci – né dei deboli, bensì degli esseri umani.
  • Strategie protettive. Quelle che attiviamo per liberarci dell’ansia, di cui una molto diffusa, è l’evitamento. Ad esempio evitare di uscire di casa per paura di una rapina, o evitare gli esami per paura di bocciare. Se sul momento ci tranquillizzano, queste strategie hanno un effetto boomerang, tendono a far fuoriuscire l’ansia dai suoi naturali confini, a diminuire il senso di autoefficacia, ossia la percezione delle proprie capacità per affrontare efficacemente compiti o situazioni, e tolgono gradi di libertà e piacere alla nostra vita.

Leggere la “lettera di presentazione” dell’ansia, ovvero conoscerla per quello che è, come una ragazza della porta accanto nel condominio dei nostri stati d’animo, significa ridimensionare lo spazio che occupa e il potere che ha, leggere il vero messaggio che porta e lo scopo delle sue visite. Facendo un esercizio immaginativo, potremmo anzi avviare una corrispondenza con lei, chiederle di volta in volta perché è qua, come può aiutarci, come possiamo aiutarci ad affrontare qualcosa di prossimo che ci preoccupa. Imparando a ringraziarla per ciò che può lasciarci in termini di consapevolezza e funzionalità, e a congedarla nel modo più sereno quando è arrivata l’ora che torni al proprio appartamento.